Nuove generazioni. Una politica che sia capace di futuro
L’importanza di uno sguardo che sappia considerare il bene delle generazioni che verranno
Alcuni anni fa, al World Economic Forum il ministro dell’Ambiente inglese sbottò: «Io so bene che l’economia e la società britannica stanno seguendo un sentiero insostenibile, ma se proponessi al Primo Ministro di rallentare il tasso di crescita del Pil per ridurre i danni all’ambiente e i rischi per le future generazioni probabilmente si metterebbe a ridere, non farebbe nulla e io non verrei ricandidato alle prossime elezioni». Lo ricorda l’attuale ministro Enrico Giovannini nel suo 'Scegliere il futuro. Conoscenza e politica al tempo dei Big Data' (Il Mulino). Diventa spontaneo chiedersi: quanti dei nostri politici (e relativi partiti) hanno davvero a cuore il futuro e adottano una prospettiva di lungo periodo? E quanti, al contrario, propongono ricette di corto respiro, pur di conquistarsi un facile consenso, sebbene consapevoli dell’insostenibilità, a medio e lungo termine, delle loro proposte? A scorrere i programmi elettorali, torna in mente un’amara considerazione del sociologo tedesco Claus Offe: «Noi continuiamo a fare cose di cui è evidente che in futuro, a posteriori, ci dovremo pentire».
Mai come oggi occorrerebbe adottare una logica diversa: la mancanza di lungimiranza, infatti, è alle origini di molti dei drammi con i quali l’umanità si misura. La capacità di guardare all’orizzonte con uno sguardo sapiente è ciò che fa la differenza in politica: del resto, già Alcide De Gasperi affermava che «un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alla prossima generazione». Nel suo recente 'Il potere della crisi. Come tre minacce e la nostra risposta cambieranno il mondo' (Egea), il politologo Ian Bremmer scrive: «Ora facciamo un salto di 25 anni nel futuro. Sono queste le prospettive che ci servono per visualizzare il punto in cui ci troviamo, dove stiamo andando e a quale velocità ci stiamo arrivando». Un appello quanto mai opportuno, dal momento che in vari ambiti stiamo sperimentando la necessità di un pensiero a lunga gittata, pena venire travolti dagli eventi. Basta guardare a quanto sta accadendo sul fronte della demografia e sul versante dei cambiamenti climatici.
Roberto Volpi, che ha da poco censito il sorpasso del numero dei single sulle famiglie, nel volume Gli ultimi italiani. Come si estingue un popolo (pubblicato da poco per Solferino), si addentra in una previsione che ha del catastrofico: nel 2070 la popolazione italiana potrebbe arrivare a contare 12 milioni di abitanti in meno rispetto al 2020. Chi formula queste ipotesi è uno studioso affidabile, il quale segnala che «già alla metà del secolo si avranno in Italia, in situazioni del tutto ordinarie, due morti per ogni nato». Quanto alla questione ambientale, gli ultimi dati dell’Osservatorio Cittàclima, dicono che da gennaio a luglio 2022 in Italia si sono registrati 132 eventi climatici estremi. Il che significa il numero più alto dell’ultimo decennio. Dal 2010 a luglio 2022 si sono verificati 1318 eventi estremi con impatti rilevanti in ben 710 Comuni. In entrambi i casi, declino demografico e peggioramento delle condizioni ambientali, assistiamo a fenomeni tutt’altro che improvvisi e imprevedibili, che hanno origine in scelte precise compiute nel passato.
Pure la crisi economica del 2008 viene letta da molti esperti come figlia di quella perversa logica 'breveterminista' che sta inquinando la finanza. Una logica agli antipodi dell’economia civile, familiare ai lettori di 'Avvenire', che invece è attenta ai tempi lunghi e, pure, ai cosiddetti 'stakeholders muti', ossia le giovani generazioni e l’ambiente. «La questione – spiegava su 'Repubblica' il 6 agosto scorso un allarmato Francesco Piccolo – è che bisognerebbe fare qualcosa, ma intanto noi attraverseremo le nostre vite senza averne troppo danno. Il danno è per un tempo che non vedremo. Dovremmo cominciare a costruire oggi le scuole, la sanità, l’equilibrio sociale di domani. Ma noi oggi ci occupiamo di oggi».
Se ci troviamo in questa situazione è perché non abbiamo adottato quello che gli studiosi chiamano il 'pensiero cattedrale': quell’attitudine, tipica del Medioevo (che ancora qualcuno si ostina a considerare un periodo buio), in cui si erigevano chiese e palazzi avendo i decenni come unità di misura. Oggi anche gli scienziati, come Helga Nowothyn, autrice de 'Le Macchine di Dio. Potere, libertà e controllo nell’era degli algoritmi predittivi', sottolinea con forza – l’ha fatto a maggio su 'La Lettura' del 'Corriere della Sera' – che «abbiamo bisogno di guardare ancora più avanti e di avere un obiettivo che ci unisca. Il pensiero della cattedrale può fornirci un punto di ancoraggio in futuro».
Intellettuali, filosofi, politologi, scienziati: da più parti si levano appelli che invitano a non inseguire il consenso immediato, per una prospettiva che vada oltre la durata delle nostre vite
Il paradosso è che anche i cattolici – imbevuti come sono (come siamo!) della cultura efficientista che connota il nostro tempo, cultura che chiede risultati a breve e profitti immediati, scordandosi del futuro – si sono accodati a una visione miope e sterile quando, invece, per 'vocazione' dovrebbero essere sentinelle che additano traguardi faticosi, ma significativi e duraturi. Eppure, è nel Dna del cristiano pensare all’altro e all’altrove, sia in senso fisico che temporale. In quest’ottica, Papa Francesco nel 2020 aveva additato la figura di Enea come modello, in quanto capace di preservare il passato e il presente e di tendere una mano ai fragili, facendosi carico del loro futuro.
In questa direzione va anche Roman Krznaric, filosofo di origini australiane. L’autore di 'The good ancestor' (che l’anno prossimo uscirà per Edizioni Ambiente) propone un indicatore inedito, un 'Indice di solidarietà intergenerazionale', che – integrando parametri come l’impronta ecologica, il coefficiente di Gini e altri – si prefigge di misurare il grado di attenzione che i diversi Paesi prestano, o meno, alle generazioni future. Sulla medesima lunghezza d’onda il futurologo Ari Wallach, da pochi giorni in libreria con un testo eloquente fin dal titolo 'Longpath: Becoming the Great Ancestors Our Future Needs. An Antidote for Short-Termism'. Come ha scritto Anna Maria Testa su Internazionale, Wallach propone di ragionare in termini transgenerazionali, di abbandonare la prospettiva tecnocentrica e, infine, di imparare nuovamente a pensare in termini teleologici, «relativi ai fini ultimi che perseguiamo attraverso le decisioni che prendiamo, e in una prospettiva che va oltre la durata stessa delle nostre vite».
Nel mondo della cultura e nella società civile è forte e crescente la domanda di una politica 'altra' e 'alta', capace di futuro. L’esempio più convincente è il manifesto, promosso da Leonardo Becchetti, cui hanno aderito molte sigle della società civile: «Ciascuno porti il proprio mattone per costruire la casa comune. La classe politica ha bisogno di nuove persone competenti e coraggiose, capaci di liberare speranza e sogni». All’indomani del 25 settembre sapremo se elette ed eletti al Parlamento sapranno raccogliere una sfida che non è esagerato definire epocale.