Opinioni

Una legge da rivedere. Clandestinità, il reato non vince la paura

Francesco Soddu martedì 12 gennaio 2016
La marcia indietro del governo sulla depenalizzazione del reato di immigrazione clandestina lascia davvero sorpresi. Già all’indomani dell’approvazione di questa norma abbiamo denunciato l’inutilità di interventi legislativi di questo tipo, la cui 'utilità' – sin dalla loro approvazione – era evidentemente di tipo mediatico, piuttosto che 'di governo' di un fenomeno importante e delicato come quello migratorio. E abbiamo stigmatizzato l’approccio demagogico che sta dietro una norma che punisce non un comportamento ma una condizione e che ha contribuito a incidere negativamente sulla credibilità del nostro Paese a livello europeo. Nei cinque anni trascorsi, infatti, gli effetti della suddetta norma non solo hanno manifestato tutta la loro inutilità ma, ancor peggio, hanno appesantito la macchina amministrativa, che per questo ne ha chiesto il superamento. Ci troviamo, dunque, di fronte a una norma che è fortemente discriminatoria e al contempo pesante e costosa per l’amministrazione pubblica. Un provvedimento ingiusto, inefficace e costoso, tant’è vero che anche il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti ha chiesto la depenalizzazione, e che – ancor prima – in tal senso si erano espresse sia la Corte costituzionale sia l’Unione Europea.
 
Eppure, nonostante che nell’aprile 2014 il Parlamento avesse dato 18 mesi di tempo al governo per procedere alla depenalizzazione del reato d’ingresso irregolare, si continua in quella che potremmo definire una sorta di omissione legislativa. Pensare di gestire l’immigrazione irregolare attraverso interventi sostanzialmente punitivi, vuol dire nei fatti non intervenire su dinamiche che necessitano, invece, di interventi ben più complessi che, a quanto pare, non si vuole o non si è in grado di attuare. Certamente la depenalizzazione del reato di immigrazione irregolare, seppure ragionevole e motivata, potrebbe costituire in questo momento una iniziativa 'impopolare'. Ma proprio qui è il paradosso: rispetto al disastro di anni in cui in molti ambiti – non solo quello della giustizia, ma anche quello economico – alla verità si è sostituita la menzogna e l’inganno di dichiarazioni roboanti o vuote e di provvedimenti normativi inutili se non dannosi, ora non si cerca di costruire una comunicazione pubblica finalmente onesta e fondata, ma si continua a evocare la questione della 'percezione' dei fenomeni, preferire una deformante 'rassicurazione' alla realtà. Come se Churchill avesse detto «ci scusiamo di qualche temporaneo disagio» per spiegare il dramma della guerra totale con la Germania nazista, piuttosto che scandire davanti al popolo della Gran Bretagna la onesta e drammatica promessa di «lacrime e sangue». Come se Roosvelt agli Stati Uniti annichiliti dalla crisi del 1929 avesse evocato ristoranti pieni e maggioranze di vacanzieri, piuttosto che ammonire gli americani a uscire di slancio dall’angolo avendo «paura solo della paura».
 
Perché è proprio la paura il vero nemico da sconfiggere. Un avversario che non si sconfigge mentendo e blandendo, ma cercando di comunicare con onestà – insisto – una prospettiva chiara, una direzione di marcia giusta e ragionevole, aiutando un Paese in parte diseducato a ragionare sul merito delle questioni, a ripartire anche da una politica che usa, sì, l’arma della persuasione, ma non quella dell’inganno. Fino a quando gli interessi della politica non saranno, però, capaci di fare gli interessi delle persone, ci troveremo in uno Stato che facciamo fatica a definire 'di diritto'. Perché una cosa è certa: il governo deve depenalizzare la norma sulla 'clandestinità' e i tempi che gli sono stati dati dal Parlamento sono scaduti. Le parole ascoltate in queste ore fanno pensare a una politica che per legittimarsi al cospetto di settori dell’opinione pubblica rischia di stravolgere le regole democratiche e questo, purtroppo, avviene quasi sempre quando si tratta di tutelare le persone più vulnerabili, coloro che non hanno voce. Il pericolo reale è di riproporre una immagine della politica come mediazione al ribasso, come tatticismo esasperante, che tradisce il dato di realtà di una norma e che impedisce – sì, addirittura impedisce – di perseguire i mercanti di uomini e di donne che lucrano sulla disperazione di migranti e profughi. Il ruolo che l’Italia sta giocando nel panorama delle migrazioni, in questa delicata fase della nostra storia, appare fondamentale e viene riconosciuto da tutti. L’operazione 'Mare Nostrum' in primis e il grande sforzo nell’accoglienza dei profughi che raggiungono le nostre coste, costituiscono elementi di cui andare orgogliosi in Europa e nel mondo. Ieri il Santo Padre, nel discorso tenuto al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, è infatti tornato a esprimere «una particolare riconoscenza (...) all’Italia, il cui impegno deciso ha salvato molte vite nel Mediterraneo e che tuttora si fa carico sul suo territorio di un ingente numero di rifugiati».
 
Possiamo, dunque, considerarci un Paese che, nel novero di coloro che si definiscono Paesi accoglienti, è in grado, più di altri, di fare la differenza. Anche per questo non dobbiamo arretrare con scelte che hanno il sapore di una resa e di ritorno a un recente passato colmo di ombre che ancora gravano sull’operato di governi che hanno fatto dell’immigrazione e della disperazione dei profughi una merce elettorale. Non a caso papa Francesco ha sottolineato al corpo diplomatico anche il suo auspicio affinché «il tradizionale senso di ospitalità e solidarietà che contraddistingue il popolo italiano non venga affievolito dalle inevitabili difficoltà del momento, ma, alla luce della sua tradizione plurimillenaria, sia capace di accogliere e integrare il contributo sociale, economico e culturale che i migranti possono offrire». Andare verso la depenalizzazione del 'reato di immigrazione clandestina' significherebbe innanzitutto, fare una scelta coraggiosa. Una scelta che forse costerebbe in termini di consenso nel breve periodo, ma che pagherebbe molto nel mediolungo periodo perché solo delle scelte lungimiranti possono aiutare un Paese a crescere nella giusta direzione, quella che vede le persone al centro delle decisioni politiche, a tutti i livelli.
                                                * Sacerdote e direttore di Caritas Italiana   Oggi solo una sanzione I pm: inutile, frena le indagini. L’abolizione del reato di clandestinità, già pronto, non sarà approvato dal Consiglio dei ministri di venerdì 15 per questioni di opportunità politica: dopo le polemiche Renzi ha deciso di rimandare tutto. Il reato, articolo 10bis del Testo unico immigrazione, arriva nel 2009 col governo Berlusconi: reclusione da uno a quattro anni. Nel 2011 la Corte di giustizia europea boccia la sanzione perché contraria alla direttiva europea sui rimpatri: compromette «un’efficace politica di allontanamento e di rimpatrio». Oggi è un reato contravvenzionale: ammenda da 5 a 10mila euro. Per diversi giuristi è incostituzionale perché rende criminale una condizione, trovarsi in uno stato di clandestinità magari per scadenza del permesso, e non un fatto, come oltrepassare un confine. In Italia c’è l’obbligo dell’azione penale, diversamente da altri stati. Un 'pro forma' che intasa le procure: l’anno scorso 26mila gli indagati ad Agrigento. Ma, proprio in quanto inquisiti, i 'passeggeri' degli scafisti possono avvalersi della facoltà di non rispondere.