Opinioni

I luoghi comuni, spazzati via dal Papa. Il vero Francesco, una roccia nell'abbraccio di Cristo

Davide Rondoni sabato 5 ottobre 2013
Ci sono storie da raccontare di nuovo, ci sono eventi che sono stati storpiati, piegati. Ci sono ritratti che sono stati abrasi o ritoccati. C’è anche una cosa nuova chiamata cristianesimo che va scoperta. Francesco d’Assisi è una delle sue figure centrali. Assiali. Uno che è entrato in un momento di fuoco della storia con tutta la sua personale inquietudine e la sua infinita domanda. Con il suo personale azzardo e la sua personale consegna. C’è una durezza nella figura di Francesco d’Assisi che sola motiva la sua dolcezza. La sua pietà. La sua forza. C’è, si vede mille volte nei suoi gesti, nelle confidenze ai suoi frati, negli scritti impetuosi, nelle scelte. È che tutto proviene dal senso di essere dentro un grande rischio. D’essere un uomo che può perdersi, che può smarrire il vero bene della vita.
La sua spoliazione, il legame coi frati, con Chiara, la stessa autorevolezza riconosciuta nella Chiesa, tutto era motivato in Francesco dal senso di correre un grave rischio. Per questo era un uomo tutt’altro che sdolcinato. Non c’è miele nel suo testamento, nel suo commento al Padre nostro, nelle lettere ai fedeli. La sua stessa idea di letizia non si radicava in una facile, leggera euforia da vagabondo. Ma era, quella letizia, il riflesso esistenziale profondo, il tesoro sempre presente quando anche nascosto, dovuto alla potenza dell’abbraccio con cui lui, e i suoi frati, si erano abbarbicati all’abbraccio di Cristo, unica salvezza. Unica vela sicura nel viaggio rischioso dell’esistenza.
La lingua scabra e ventosa del suo cantico delle creature, terminato poco prima di morire, è il segno di un’anima che trova pacificazione solo nel rivolgersi all’Altissimo, sentendosi uomo minimissimo, ingaggiato in una dura battaglia contro tutto ciò che di "mondano" – come ha richiamato ieri il Papa che reca il suo nome – si poteva infiltrare nella vita presentandosi come sicurezza o salvezza. No, l’unica sicurezza nel durissimo viaggio dell’esistenza, tra lupi, lebbrosi nel corpo e lebbrosi nel cuore, era per lui Cristo, di cui si fece alter ego. Non si sentiva un salvato, se non nel momento in cui accettava lo sguardo di Cristo e lo ricambiava con tutta la forza che aveva.
La figura di Francesco è una delle più ammirate e travisate della storia. Somiglia a uno di quegli amici (spero ne abbiate anche voi) che ammiri e con cui però non si riesce a stare in pace, ad andare d’accordo. Uomo che del suo tempo visse tutta l’ansia e la perigliosità. E che non somiglia di certo a talune raffigurazioni melense che circolano dentro e fuori la Chiesa. Addomesticare Francesco, renderlo una specie di profeta di cose che poi noi siamo stati bravi a realizzare e comprendere (un rapporto profondo con la natura, ad esempio, o un moralista facile) significa privarlo della sua forza di scandalo. Che si radica solo in una tensione essenziale. Solo Cristo salva la vita. Lo grida nei suoi scritti, nelle raccomandazioni ai suoi frati, nel duro incendiario testamento finale, dove raccomanda più d’ogni altra cosa l’unità con la Chiesa, affidandosi così ancora una volta al Cristo vivente, al suo abbraccio che strappa dal nulla. Perché lui quel nulla sapeva cos’era, ne aveva sentito il respiro morto in viso. Sapeva di correrne sempre il rischio. Così è diventato Francesco, non per quieto vivere, ma per una grande inquietudine abbracciata a Gesù.​
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