Opinioni

L'invidia male dei tempi di crisi. Il grano e il loglio

Luigino Bruni domenica 30 giugno 2013
C’è una nota che accomuna molte forme di malessere non inevitabile che afflig­gono la nostra società: l’urgenza di rieducare le nostre passioni e i nostri sentimenti. Una passione da rieducare presto è l’invidia, tra le più devastanti in ogni cultura, molto perico­losa nei tempi di crisi. Le culture del passato, a differenza della nostra, conoscevano i disa­stri prodotti dall’invidia non curata e gestita, e così avevano sviluppato un’etica idonea a o­rientarla al bene o quanto meno ad arginarla. La regola d’oro – «fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te» – può anche essere letta co­me una cura preventiva dell’invidia. Non a caso è posta dalla Bibbia al centro della prima fraternità-fratricidio di Caino. La nostra civiltà, però, fa molta fatica a capire l’invidia. La confonde con un’idea errata di competizione (battere gli altri), la quale viene addirittura presentata come l’unica strada per orientare al bene comune la natura invidiosa della persona. Non la vediamo dietro alle cre­scenti invocazioni della 'meritocrazia', cioè del merito nostro e del demerito (o 'fortuna') degli altri. Non la riconosciamo dietro denunce e querele, e così non facciamo regole per bloc­care sul nascere troppi processi evidentemente 'invidiosi', che assorbono immense energie morali ed economiche di cittadini e tribuna­li. Non la smascheriamo nella corsa al 'con­sumo posizionale', che ci fa indebitare per raggiungere i livelli di consumo di colleghi e vi­cini e di casa, un’invidia sociale che la pubbli­cità tende ad amplificare e il mercato a sfrut­tare per vendere le sue merci, aumentando il Pil e l’infelicità – eliminare la componente 'in­vidiosa' del Pil sarebbe un primo passaggio verso una misurazione del benessere reale di un Paese. Eppure l’invidia è molto semplice da indivi­duare: è soffrire per il bene altrui, gioire per il suo male, e poi agire per creare quel male o ri­durre quel bene. In tedesco esiste una parola – schadenfreude – che esprime esattamente quel sentimento di compiacimento che può nascere in noi quando qualcuno ci comunica una brutta notizia che lo riguarda. Perché però si cada nel vizio, e spesso dal vizio si passi al danno e persino al reato, occorre che la pas­sione generi azioni. Non è il semplice 'desi­derio' della 'roba d’altri' a violare il coman­damento. Ce lo suggerisce anche il significato del verbo ebraico hamad : nel Decalogo lo tra­duciamo con 'desiderare', ma la sua seman­tica indica l’atteggiamento di chi delibera di a­gire per ottenere ciò che desidera (male). In realtà, se un sentimento o un pensiero cattivo non viene combattuto sul nascere, prima o poi si traduce anche in opere, parole, omissioni. Nell’invidia esiste poi un fondamentale mec­canismo di reciprocità negativa. Poiché so che tu stai provando invidia per il mio successo, an­che io, se sono invidioso, provo un piacere sub­dolo a raccontarti le mie vittorie (e a tacerti le mie sventure). E così si generano spirali di ma­li relazionali, di cui siamo ogni giorno spetta­tori e protagonisti, circoli viziosi spezzati solo dalla presenza di persone magnanime. La pre­senza di persone magnanime è un grande do­no per una comunità, perché, essendo anti­invidiose, moltiplicano le gioie e riducono i dolori. Ma non si diventa magnanimi senza u­na profonda vita spirituale e quindi un co­stante esercizio dell’ agape – sia l’eros che la philia possono produrre invidia, solo l’agape è per natura anti-invidiosa. La famiglia è, o do­vrebbe essere, il principale luogo dove si svol­ge il gioco di specchi virtuoso dell’anti-invi­dia. Una delle più grandi forme di povertà del nostro tempo è quella che vivono i tanti che non hanno persone anti-invidiose con cui condividere le grandi sventure e le grandi gioie dell’esistenza. L’invidia, come già ricordava Aristotele, si svi­luppa solo verso i nostri pari. Da studenti non si è invidiosi dei professori, ma dei compagni. Non si invidiava l’imperatore, né il padrone. Verso i 'superiori' scattano altri sentimenti: rabbia, ammirazione, imitazione e magari spe­ranza di diventare un giorno come loro. Non si invidiano i genitori, ma i fratelli. Un segna­le inequivocabile di invidia è la sindrome dell’«anche se…», quella nota negativa con cui l’invidioso termina ogni apprezzamento («è un’ottima persona, anche se…»). Le società castali, dalle civiltà antiche alle grandi impre­se capitalistiche, sono anche un tentativo di limitare lo sviluppo dell’invidia. L’ideale di ogni società gerarchica perfetta è la costruzione di organizzazioni sociali do­ve i pari siano il meno possibile, e ognuno abbia solo superiori e inferiori. Gli esseri umani fan­no fatica non tanto a comandare o ubbidire, ma a rap­portarsi positivamente con i pari. Le società globa­lizzate e più ugualitarie aumentano moltissimo il nu­mero dei pari, e quindi la possibilità dell’invidia. Ma non dobbiamo dimenticare che quando ci confron­tiamo con chi sentiamo migliori di noi, assieme alla possibile invidia sorge spesso anche la stima e il de­siderio di cooperazione. Quando un mio pari ottie­ne un miglioramento e siamo in un contesto stati­co, dove la 'torta' è data ed è una sola, quel suo van­taggio può facilmente tradursi in un mio svantaggio, in un 'gioco a somma zero' (dove i guadagni dell’u­no sono uguali alle perdite dell’altro). E qui scatta­no il sentimento e spesso le azioni, dell’invidia. Ma in realtà le relazioni sociali che sono oggettivamen­te un 'gioco a somma zero' sono soltanto una pic­cola minoranza. La vita in comune, quando funzio­na, è invece una grande fabbrica cooperativa, un in­sieme di relazioni di mutuo vantaggio per crescere insieme. L’invidia coltivata ci fa allora perdere mol­te occasioni di mutuo vantaggio, perché ci porta a leg­gere soggettivamente il mondo come un luogo di continuo confronto rivale e distruttivo con gli altri, e non come un insieme di opportunità di reciprocità. Ecco perché molto spesso l’invidia è una scorciatoia sbagliata in un rapporto nel quale non siamo stati ca­paci di vedere e trovare una buona reciprocità.L’in­vidia può essere una stima che non giunge a matu­razione per insufficiente magnanimità. Nei tempi di crisi si accentua la tendenza a leggere i rapporti con gli altri in termini rivali e invidiosi, come 'giochi a somma zero'. Le crisi alimentano le invidie e da que­ste sono alimentate. È quindi in questi tempi che l’e­ducazione all’anti-invidia, alla magnanimità, alla sti­ma dei nostri pari è particolarmente preziosa, co­minciando come sempre dalla famiglia e dalla scuo­la per arrivare alle istituzioni (sistema fiscale, sche­mi d’incentivi nelle imprese …), che non devono ge­nerare il loglio dell’invidia ma il buon grano della cooperazione. ​​​​