Opinioni

Il dato. L'altra Europa degli studenti fuorisede. Che a votare sono andati eccome

Viviana Daloiso lunedì 10 giugno 2024

Anna è fra i poco più di 17mila studenti fuorisede che per la prima volta nella storia delle elezioni – Avvenire lo ha raccontato nei giorni scorsi – hanno usufruito della possibilità di votare lontano da casa, fuori dal proprio Comune di residenza. Brianzola, di stanza a Forlì per gli studi universitari in Scienze diplomatiche, per farlo si è risparmiata il viaggio a Monza ma ha dovuto comunque mettere in programma una gita a Bologna, visto che Lombardia ed Emilia Romagna appartenevano a due circoscrizioni diverse, quella di Nord Ovest e quella di Nord Est: in questo caso occorreva presentarsi nei seggi speciali istituiti nei principali capoluoghi di Regione, concentrati soprattutto a Milano e Bologna, appunto. Lì Anna ha compagni di corso con cui ha passato una domenica di studio e di svago: ha preso l’auto, racconta, ha pagato un parcheggio in centro città, oltre al pedaggio del breve tratto autostradale. L’ostacolo insomma è stato facilmente aggirabile rispetto ad altri. Tanto per elencarne qualcuno: aver dovuto presentare apposita istanza di “voto fuorisede” al proprio Comune di residenza entro il 5 maggio (ciò che hanno fatto 23mila giovani sui 561mila che studiano in una città diversa dalla loro in Italia); aver affrontato gli arrugginiti ingranaggi burocratici della comunicazione tra uffici municipali diversi (alcuni privi di Pec, altri privi di centralini attivi, altri ancora aperti solo due o tre giorni a settimana); non ricevere l’attestazione di ammissione al voto (per poi scoprire che la si poteva scaricare online ad appositi link); non essere stati informati della necessità di stamparla (e via con le code nelle copisterie); non trovare le proprie regioni di appartenenza indicate nelle apposite circoscrizioni (al Sud è successo davvero ed è stato documentato sui social dagli stessi studenti).

Poco importa, i ragazzi lontani da casa alla fine a votare ci sono andati – l’80,8 per cento fra quelli che ne hanno così difficilmente conquistato il diritto – e la loro idea d’Europa è di quelle che nelle prossime ore dovrebbe anche più far riflettere la politica nostrana: perché, al contrario della tendenza nazionale, nel 40,3 per cento dei casi a Strasburgo avrebbero mandato esponenti di Alleanza Verdi-Sinistra, nel 25,4 del Partito Democratico, nel 10,2 di Azione, nel 7 per cento circa rispettivamente di Stati Uniti d’Europa e Movimento 5 stelle e solo nel 3,3 per cento dei casi di Fratelli d’Italia (per poi scendere al 2,3 di Forza Italia e addirittura allo 0,53 della Lega). Un mondo al contrario, o quasi.

Nessuna sorpresa, si dirà: il clima e la difesa dell’ambiente scorrono nel sangue dei più giovani. Sono loro a essere scesi nelle piazze d‘Italia e d’Europa negli ultimi anni per chiedere politiche green e transizione ecologica. Ed è nelle università poi, in particolare proprio tra gli studenti fuorisede, che negli ultimi mesi è montata la protesta più vibrante contro il governo circa l’impossibilità di sostenere i percorsi di studio nelle grandi città, con la richiesta di più diritti, a cominciare da quello alla casa. Le tende hanno invaso i nostri atenei, ben prima delle occupazioni selvagge legate alla causa palestinese, e quel movimento ha avuto il merito di aprire un dibattito che ha convinto ministri e rettori a mettere in campo energie e fondi per garantire una risposta strutturata all’emergenza dei ragazzi. Ma quella richiesta di diritti, quel desiderio d’aver voce in capitolo non solo sulla geografia sociale delle nostre città ma anche su quella del Vecchio Continente, ancora così lontano dal mantenere le sue promesse alle nuove generazioni, ha preso per la prima volta una forma nitida, tangibile. In cui rientrano a pieno titolo altre istanze decisive fotografate nei sondaggi delle ultime settimane sulle intenzioni di voto degli under 30: quelle del salario minimo, dell’integrazione delle seconde generazioni, dell’accoglienza e del salvataggio dei profughi in mare. Difficilmente il Parlamento europeo che verrà, se la sua composizione effettiva sarà quella che si intravede dai primi risultati delle urne, sarà in prima linea su queste battaglie.

La piccola buona notizia, allora, resta almeno aver offerto a questo pezzo d’elettorato il modo di esprimersi più facilmente. In quanti avrebbero votato, aggiungiamo, se i meccanismi fossero stati semplificati ancora di più? Se la novità fosse stata decisa prima di aprile e comunicata più capillarmente nelle università? O se, per esempio, la stessa possibilità fosse stata offerta non solo a chi studia ma anche a chi lavora lontano dal proprio Comune di residenza, in attesa di un contratto fisso o che il proprio progetto di vita prenda una direzione definita? E quali modalità di voto si possono immaginare, in un mondo ormai governato dalle regole digitali, per contrastare quella malattia dell’astensionismo che forse non dipende soltanto dal disinteresse per la cosa pubblica ma anche dalla distanza di certi meccanismi che la contraddistinguono dalla realtà in cui viviamo? Favorire la partecipazione del maggior numero possibile di persone alla costruzione del futuro comune, specie tra i più giovani, è dovere e compito alla portata di ogni Paese democratico. Ascoltare quello che chiedono, e capire perché lo chiedono, è il passo successivo.