La sussidiarietà e altre domande. È l'ora di riscoprire i corpi intermedi
Tra le molte questioni strategiche sollevate dal voto del 4 marzo si pone con forza anche quella del cosiddetto 'voto cattolico', o meglio, del 'voto dei cattolici': per chi hanno votato? Il tema era stato presente in modo spesso drammatico già prima delle elezioni: alcuni hanno offerto progetti politici – persino partiti – esplicitamente collegati alla mappa dei valori della Dottrina sociale della Chiesa, ma era già molto forte la consapevolezza (poi confermata) che 'il voto dei cattolici' si sarebbe distribuito tra tutti i partiti, anche tra quelli che proponevano valori, stili e scelte politiche differenti (se non opposte) rispetto a quanto proposto dalla Dottrina sociale della Chiesa. Così come era evidente, prima del voto, la costante diminuzione di candidati che facevano esplicito riferimento al variegato 'mondo cattolico' (e, più in generale, alla società civile). Dopo le elezioni però è emersa una ulteriore criticità, perché molti di questi candidati non sono stati premiati dal voto, e nel nuovo Parlamento la presenza di deputati e senatori dichiaratamente 'cattolici' si è ulteriormente assottigliata. Da qui una nuova domanda, ancora più radicale: prima ancora di capire per chi votano i cattolici, che ne è della presenza dei cattolici in politica? E, addirittura: ha ancora senso parlare di cattolici in politica?
Tra i molti temi già discussi in merito, uno è rimasto ancora colpevolmente trascurato, e la sua dimenticanza rischia di impedire una adeguata comprensione della posta in gioco. Si tratta di un elemento irrinunciabile e originale della Dottrina sociale della Chiesa (ma anche della nostra Carta costituzionale): il principio di sussidiarietà, nella sua specificità di valorizzazione dei corpi intermedi. Ed è proprio la cittadinanza dei corpi intermedi che sembra essere scomparsa dal dibattito pubblico, che è tornato ad essere appiattito in una relazione diretta 'politica-singolo cittadino'. Il che è davvero paradossale, alla fine di una legislatura che, bene o male, pur segnata dalle polemiche contro gli 'intermediatori', si è occupata molto di sociale, e che era finalmente riuscita ad approvare un provvedimento da lungo atteso, come la riforma organica del Terzo settore, intervento legislativo che, pur con tutte le inevitabili imperfezioni e i ritardi attuativi, era stato salutato da quasi tutto il mondo associativo non profit con grande favore. La mancata rielezione in Piemonte di Luigi Bobba sembra essere l’icona più evidente di questo paradosso: proprio chi nel governo aveva maggiormente seguito e promosso questa legge, una figura tipica di cattolico a lungo impegnato nella società civile che poi si dedica all’impegno politico diretto, è rimasto fuori dalle scelte degli elettori.
In effetti, oltre e prima ancora che 'i cattolici in politica', è scomparsa dal dibattito politico la prospettiva di 'un popolo in azione', l’idea che la buona politica – non solo per i cattolici – è quella capace di valorizzare e promuovere la capacità di auto-organizzazione della società, di riconoscere l’associazionismo, il volontariato, i comitati di quartiere, le esperienze di auto-mutuo aiuto: tutti gesti politici, tutte azioni che cambiano il volto di una comunità, spesso nel faticoso lavoro delle relazioni brevi, del vicinato, del territorio. E che partono dall’azione sociale, non dal progetto politico. Stare in politica da cattolici, anche oggi, soprattutto oggi, ha senso e valore aggiunto solo se è espressione di un popolo in azione, di una solidarietà operante. Altrimenti anche la presenza (e il voto) dei cattolici in politica diventa individualistica, e subordinata a una autoreferenzialità del mondo politico che paradossalmente trova un’ulteriore spinta proprio dalla vittoria della cosiddetta antipolitica o nuova politica: 'Adesso ci siamo noi, e della società civile non abbiamo (più) bisogno'. Invece, la vera sfida alla politica della Dottrina sociale della Chiesa sarebbe proprio questa: una politica di servizio, che usa il proprio potere per fare spazio ad altri mondi vitali. In questo senso anche gli impegni e le promesse 'a misura di famiglia' di questa campagna elettorale rischiano di essere un rinnovato modello assistenziale, per una famiglia-problema, anziché essere strumento di sussidiarietà che promuove la famiglia come soggetto sociale attivo, risorsa per le persone e per la società. Ridurre la questione 'cattolici in politica' alla sola domanda: 'per chi votano?', oppure al tema 'Chi si candida/chi fa politica da cattolico?' significa ridurre la questione a una dimensione solo individuale, persino moralistica, che non corrisponde alla dinamica più virtuosa del rapporto tra credenti e bene comune della civitas terrena. Ovviamente ogni cittadino (e quindi ogni credente) ha un compito e un impegno totalmente personale rispetto alla politica in quanto tale: il voto e la scelta di giocarsi in prima persona fanno parte di quella responsabilità morale così efficacemente descritta da Paolo VI nel definire la politica come una «la più alta forma di carità». Ma la grande sfida, per il variegato mondo cattolico è un’altra: siamo popolo? E siamo ancora convinti che questa esperienza di popolo sappia esprimere un progetto di bene comune, di cittadinanza attiva e responsabile, non corporativo, ma capace di costruire una società più libera, più giusta e più solidale per tutti? E siamo ancora capaci di pensare un progetto unitario, dove le diversità non siano scandalo ma valore aggiunto di ciascuno?
Direttore del Centro internazionale studi famiglia (Cisf)