Opinioni

Il vizio démodé della verità e dell’onestà

Andrea Lavazza venerdì 22 luglio 2011
Di Indro Montanelli è già stato detto in questi giorni che sbagliò previsione quando affermò che alla sua morte sarebbe stato dimenticato. A dieci anni dalla scomparsa, il 22 luglio 2001, siamo invece qui a commemorarlo con la nostalgia che si ha per un maestro, un maestro di giornalismo in un’epoca che di maestri ha molto bisogno. A tirarlo per la giacca, quelle sue giacche fuori moda e senza tempo che su di lui però apparivano la quintessenza di un’eleganza naturale e non ricercata, sono coloro che sembrano avere nulla, o ben poco, imparato dal Montanelli che mitizzano.Impegnati come sono a fare valere ragioni di partigianeria, di qua o di là, anti-comunista o anti-berlusconiano. Indro, ci sia consentito chiamarlo affettuosamente così, lui vecchia scuola che non metterebbe in un titolo Vladimir o Barack per Putin e Obama, darebbe a tutti del "bischero". Senza rancore, ché le sue collere poi si stemperavano e le rotture si ricomponevano, magari in privato, continuando a fare la faccia feroce in società. D’altra parte, aveva perdonato anche i brigatisti che gli spararono alle gambe. (Commovente rileggere la cronaca sul suo "Giornale" dell’inviato che lo incontrò nella camera d’ospedale dopo l’attentato, mentre gli altri quotidiani, senza vergogna, nei titoli tacevano il suo nome, allora impronunciabile, quasi quelle quattro sillabe del suo cognome contaminassero le pagine "progressiste"). Bischeri tutti quelli che cercano di incasellare Montanelli in una parte, che vogliono arruolarlo in un partito o nell’altro. È stato Indro anti-comunista e anti-berlusconiano, certo. Pure, per poco, fascista. Ma è stato anche molto altro. È stato onesto nell’ammettere i propri errori, nel cambiare idea, nel non ragionare con il paraocchi. È stato, soprattutto, un testimone incorrotto della verità dei fatti che ha seguito come inviato. Dalla guerra civile spagnola all’invasione sovietica in Finlandia fino alla rivolta di Budapest nel 1956 non temette di inimicarsi i regimi rompendo la menzogna dell’ufficialità, né di scontentare le opinioni pubbliche con una versione che ora definiremmo "politicamente scorretta". Fino al 1974 fu un grande solista, uno spirito libero, un virtuoso del giornalismo, cinico e vanitoso quanto ci si attende da una primadonna. Sempre più a disagio nel clima plumbeo del conformismo sessantottardo – che sapeva essere al tempo stesso tanto compulsivamente sovvertitore di regole e tradizioni quanto intollerante del dissenso – lasciò il "Corriere" con un gruppo di autorevoli firme per fondare il "Giornale". Non fu solo un’operazione politica, ma una vera impresa culturale. A quella straordinaria e un po’ temeraria avventura parteciparono intellettuali che non si rassegnavano agli eccessi dell’egemonia di sinistra – laici e cattolici –, avversati solo per il fatto di scrivere sul foglio di via Gaetano Negri. Un seme piccolo, tuttavia fecondo. Non è un caso se all’avvio della auspicata (e fallita) rivoluzione liberale della seconda repubblica uomini della squadra montanelliana passarono direttamente da commentatori a ideologi di partito e ministri. L’anziano Indro non vi si imbarcò. Anzi, a 85 anni ebbe ancora la forza di fondare un altro quotidiano, "la Voce". Il suo destino era quello di un solitario di successo, di un grande comunicatore tutto sommato incompreso. La sconfitta è il blasone dell’hidalgo, amava dire. E lui che tentò sempre di indicare la via per un’Italia pubblica più sobria e decente, onesta e disciplinata, alla fine è rimasto uno sconfitto. Quindi, da vero hidalgo, con una medaglia aggiuntiva.