La partita Usa-Russia sui Trattati missilistici. Il viso dell'arme e gli affari armati
La partita si gioca su due livelli. Quello geopolitico e quello commerciale. Nel primo livello assistiamo a un ulteriore colpo di acceleratore nell’ormai inaggirabile riedizione della Guerra fredda fra Washington e Mosca con la recente minaccia americana di uscire formalmente da quel Trattato Inf ( Intermediate Nuclear Forces) siglato nel 1987 da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov e meglio conosciuto come 'Opzione Zero'. Un accordo in base al quale si prevedeva l’eliminazione dei vettori a corto e medio raggio schierati in Europa, i famigerati Pershing e Cruise che l’Alleanza atlantica opponeva agli altrettanto famigerati SS-20 sovietici in quello che con farisaico umorismo veniva considerato il 'teatro' di operazioni in caso di un conflitto fra la Nato e il Patto di Varsavia: ufficialmente oltre 850 i missili americani e quasi 1.900 quelli sovietici.
Il viso dell’arme dell’uomo della Casa Bianca al dirimpettaio del Cremlino è reale. Ovvero l’attuale minaccia di Washington (peraltro tutt’altro che irreprensibile in materia) non è campata in aria: Mosca non ha mai sostanzialmente osservato quel Trattato e meno mai che lo onora in questi ultimi mesi, soprattutto da quando ha schierato a Kaliningrad sul Mar Baltico e a Kapustin Yar sul Basso Volga i missili Iskander dalla gittata potenziale di oltre 2.000 chilometri, capace cioè di raggiungere l’intero schieramento europeo della Nato con la sola eccezione della Spagna.
«Finché qualcuno viola questo accordo – ha detto Trump, che per ora tuttavia ha congelato la decisione americana – non saremo gli unici a rispettarlo». Immediata la risposta di Vladimir Putin: «In tal caso non resterebbe altro che una corsa agli armamenti: se gli Usa dovessero dispiegare i missili di medio raggio in Europa, la Russia sarebbe costretta a prendere di mira i Paesi che li ospitano».
Chiarissimo, quanto prevedibile. Ma questo è solo il livello geopolitico. In filigrana se ne intravede un altro: quello dell’imminente riarmo delle due superpotenze e del grande e mai rinnegato business degli armamenti. Un mercato che rende e che sfiora i 1.700 miliardi di dollari annui, pari al 2,3% del Pil mondiale e del quale Stati Uniti, Russia e Cina sono i tre grandi player. Tre protagonisti-antagonisti che a quel ricco mercato non sono certo disposti a rinunciare. Pensiamo alla Russia di Putin, che vende i suoi modernissimi sistemi antiaerei S-400 e i caccia Sukhoi Su-35 alla Cina riservando le richiestissime batterie missilistiche non solo all’India, ma anche alla stessa Turchia, nonostante Ankara sia membro della Nato (la Siria si accontenta per ora - dei più anziani S300, che tuttavia privano Israele del tradizionale dominio assoluto sullo spazio aereo di Damasco).
Business is business, come si suol dire. La stessa Cina, che per ora evita di interferire nel mercato europeo, arma soprattutto se stessa e fa affari in Africa. E pensiamo anche all’Arabia Saudita (in questi giorni nell’occhio del ciclone per la tragica e opaca vicenda del giornalista Jamal Khashoggi), cliente e alleato di Washington a cui assicura una novantina di miliardi di dollari annui per la manutenzione e l’ammodernamento del proprio arsenale e che per il 2019 prevede uno shopping per complessivi 150 miliardi di contratti.
Davvero Trump è disposto a rinunciare a quel contratto-monstre in nome dei diritti umani? In altre parole, rivali e spesso nemici nel grande scacchiere politico-militare mondiale, Russia e Stati Uniti (ma aggiungiamoci pure Pechino) si rivelano niente più che allegri compari nel pingue mercato delle armi. Se salteranno i Trattati internazionali sui missili sarà una manna per i fabbricanti di armamenti di entrambe le sponde. Del resto, con un pizzico di malizia, cos’altro è quel Trident Juncture 18 iniziato ieri (la più grande esercitazione Nato dall’epoca della Guerra fredda), se non una magnifica fiera del potenziale bellico atlantico? O è forse un caso che in prima fila, invitati di riguardo, ci siano proprio i russi?