Quando il 30 aprile 1975 i carri armati dell’esercito vietnamita sfondarono il cancello del palazzo presidenziale di Saigon e l’ambasciatore Graham Martin insieme ai restanti funzionari si imbarcarono sull’elicottero «Sea Knight» – immagini entrate nella storia –, per molti, soprattutto negli Stati Uniti, la Guerra del Vietnam era già finita. A siglarne la conclusione, era stata la firma degli accordi di pace di Parigi il 27 gennaio 1973, dopo cinque anni di negoziati. Il coinvolgimento di Washington nel conflitto vietnamita, in cui era entrato ufficialmente dal 1965, era proseguito però con consistenti aiuti e la presenza di specialisti, nella convinzione che finanziamenti e assistenza militare avrebbero consentito al Vietnam del Sud di mantenere l’indipendenza. Ad accelerare la fine della presenza statunitense e la disgregazione del regime sudvietnamita furono una serie di fattori, tra cui la crisi globale aperta dalla guerra arabo-israeliana del 1973, le dimissioni del presidente Richard Nixon successive allo scandalo Watergate nell’agosto 1974, l’opposizione dell’opinione pubblica americana a un ulteriore coinvolgimento in Indocina. Dopo la decisione del Congresso di chiudere i finanziamenti, il governo di Saigon si trovò nell’impossibilità di garantirsi le armi e le munizioni sufficienti a contenere la pressione militare del Nord, che nel frattempo aveva elaborato un’offensiva di penetrazione nella capitale appena le condizioni si fossero rivelate opportune. Ciò accadde dal 28 aprile 1975, con risultati forse insperati dagli stessi strateghi di Hanoi ma favoriti anche dalle dimissioni, il 21, del presidente Nguyen Van Thieu e dal successivo sbandamento del governo e delle forze armate. I due protagonisti del conflitto da parte vietnamita – il raffinato ideologo Ho Chi Minh e il duro stratega e poi politico di rango Vo Nguyen Giap – sono scomparsi, rispettivamente nel 1969 e nel 2013 e, al di là del cordoglio ufficiale o spontaneo, per molti un Vietnam privo dei protagonisti della sua unificazione è stata occasione di chiudere un capitolo della storia del Paese e di aprirne a pieno titolo uno nuovo. La trasformazione dell’economia sotto la leadership comunista – dal 2006 affidata a Nguyen Tan Dung –, sostenuta anche da apertura a capitali e influenze straniere, sta portando i 90 milioni di vietnamiti fuori dal sottosviluppo, un obiettivo che si prevede sarà completato entro il 2020. Il perseguimento di una 'economia di mercato di orientamento socialista' è rimasto sostanzialmente riferito al Nord. Il Sud, che produce da solo oltre il 60 per cento della ricchezza nazionale, ha confermato la sua diversità, ponendosi a un diverso livello di benessere e libertà, ignorate da Hanoi in cambio di un congruo travaso di fondi e periodici richiami a moderazione e rispetto delle basi ideologiche. La crescita record dell’8,4% nel 2005 è difficilmente uguagliabile, ma dopo anni di contrazione i sintomi di risalita sono concreti, confermati dalla previsione del 6,2% di crescita del Pil per l’anno in corso. A renderla possibile, una popolazione giovane, manodopera disciplinata e preparata, agricoltura e manifatture collaudate, conflittualità sociale irrilevante. Un’offerta allettante per gli investitori proposta anche all’Italia durante la visita del giugno 2014 di Matteo Renzi a Hanoi. La nascita a fine anno della Comunità economica dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico, di cui il Vietnam è parte, è una sfida ulteriore, che potrebbe incentivare investimenti e turismo, ma anche rendere più evidenti i limiti complessivi del sistema attuale. Lo stesso premier è intervenuto il 23 aprile scorso per criticare con durezza quei funzionari i quali, per adesione alle regole come pure in molti casi per propria iniziativa e propri interessi, prolungano fino a due anni i tempi di approvazione di investimenti vitali. La pretesa di Pechino di un dominio pressoché completo sul Mar cinese meridionale costringe oggi Hanoi a cercare – paradossalmente, visto il recente passato – il sostegno dell’unica potenza, gli Usa, in grado di opporsi alle mire cinesi. D’altra parte, da anni i rapporti strategici sempre più stretti con Washington seguono e affiancano quelli economici, con un valore che sfiora i 30 miliardi di dollari l’anno. A fronte di ingenti investimenti e in joint-venture locali, la Coca Cola è stata riammessa in Vietnam nel 1994. L’8 febbraio 2013 il primo McDonald’s accendeva l’insegna nell’ex Saigon, registrando 400mila clienti nel primo mese di apertura e precedendo altre imprese-simbolo dell’antico avversario yankee: Burger King, Kentucky Fried Chicken, Starbucks... Specchio dei tempi, si dirà. Anche necessità di aprire spazi a valuta pregiata, iniziative imprenditoriali e scelte, almeno fino a quando non collidono con il potere e i suoi detentori. «Il Vietnam è tra i principali mercati per gli acquisti online nel Sud-Est asiatico, con una percentuale del 58% di consumatori che usano i loro smartphone per lo shopping, secondi solo ai cittadini di Singapore e della Malaysia». A segnalarlo è Doan Duy Khoa, responsabile locale dell’istituto di ricerca Nielsen, commentando i recenti dati sul commercio elettronico in Asia sud-orientale. Un segnale di cambiamento nei costumi che collide, tuttavia, con il fatto che decine di presunti dissidenti informatici sono in carcere o sotto processo per 'propaganda contro lo Stato' e altri reati d’opinione. Il Decreto 72, in vigore dal 2013, limita blog, forum, chat, strumenti come Twitter e Facebook, ammessi solo per «fornire e scambiare informazioni di carattere personale». Escluso e passibile di severe punizioni lo scambio di informazioni e idee su temi di carattere politico, economico e sociale, come pure è proibita la distribuzione online di articoli e libri. L'esperienza di persecuzione subita dall’avvocato, attivista e blogger cattolico Le Quoc Quan è particolarmente significativa per i correligionari che da decenni vivono tra speranze di apertura e periodici irrigidimenti dell’atteggiamento governativo verso le fedi ammesse al culto pubblico. Il Decreto 92 che da due anni regolamenta la registrazione dei gruppi religiosi prevede che i loro rappresentanti, prima che possano operare, debbano avere praticato per un ventennio la propria fede in piena armonia con il governo. Lo scorso anno, il rapporto World Watch List dell’organizzazione Open Doors ha posto il Vietnam al 18º posto tra i Paesi in cui il cristianesimo è maggiormente perseguitato, in peggioramento di tre posizioni sul 2013. Contemporaneamente, la Commissione Usa per la libertà religiosa internazionale ha segnalato al Dipartimento di Stato la condizione «particolarmente preoccupante» del Vietnam. La comunità cattolica vive oggi le speranze rinfocolate dall’incontro di Nguyen Tan Dung con papa Francesco il 18 ottobre 2014, dopo quelle accese dalla storica visita in Vaticano dello stesso Nguyen il 25 gennaio 2007. Molte però le questioni che rimangono aperte: libertà di credo e pratica religiosa, gestione dei seminari e delle scuole d’ispirazione cristiana, restituzione delle proprietà confiscate... tutte essenziali per la Santa Sede, mentre Hanoi punta anzitutto a un’affermazione diplomatica. Battezzati e personale religioso sono in crescita, come le vocazioni. Così, in attesa di ulteriori sviluppi nei rapporti tra Hanoi e Santa Sede, che risentono di eventi precedenti e successivi alla caduta di Saigon, la capacità di dialogo con il potere e con i diversi settori della società consente alla Chiesa vietnamita di proseguire nel ruolo di sostegno allo sviluppo nazionale che si è data in tempi drammatici e le ha consentito di guadagnarsi crescente considerazione.