Il veto di Polonia e Ungheria in sede Ue e il gran peso di parole e scelte politiche
Gentile direttore,
nel nostro ruolo di ambasciatori della Polonia e dell’Ungheria presso la Santa Sede seguiamo con grande interesse il suo giornale, con attenzione particolare gli articoli relativi ai nostri Paesi, considerando che “Avvenire” influenza molto la visione dei nostri Paesi nel mondo cattolico italiano. Con riferimento all’articolo a firma di Giovanni Maria Del Re dal titolo: «Ungheria e Polonia, mossa anti-Ue» pubblicato il 17 novembre 2020, vorremmo sottolineare che Varsavia e Budapest hanno bloccato il Budget 2021-2027 e il Next Generation Eu-Recovery Fundper un motivo molto chiaro. A luglio quando sono state decise le due assegnazioni dei fondi del Piano, queste non erano ancora legate a un non meglio specificato «rispetto dello Stato di diritto». Tale clausola è stata in- serita nel Testo senza – secondo il nostro parere – la necessaria e dettagliata spiegazione sul come intendere ciò, in relazione dell’erogazioni dei Fondi. Infine, vorremmo esprimere il nostro disappunto per alcune espressioni usate in un’analisi a firma dello stesso giornalista che accompagna il citato articolo. Espressioni come «regimi autoritari e populisti» riferite ai nostri Paesi, che riteniamo non oggettive e offensive. Nutriamo speranza che pubblicherà la nostra lettera come contributo al dialogo fra i Paesi della Ue. Distinti saluti
Pubblico volentieri la vostra lettera, gentili ambasciatori. E, nel salutarvi con cordialità personale oltre che come rappresentanti di due popoli fratelli, dico subito che mi fa paradossalmente piacere che consideriate «offensive» espressioni come «autoritario» e «populista » che, purtroppo, leader politici dei vostri importanti Paesi, come di altri Stati della Ue, tengono invece in gran conto, usandole e lasciandole usare senza remore nel dibattito pubblico. Se poi queste stesse espressioni «autoritario » e «populista» siano «oggettive» o meno è questione indubbiamente opinabile. Una constatazione che non mi impedisce di essere solidale coi vostri sentimenti e di confermarvi che su queste pagine non c’è mai stata nessuna intenzione offensiva verso Polonia e Ungheria. Il punto è che non abbiamo inventato noi le parole e i gesti di governo con cui il primo ministro ungherese Vickor Orbán propugna, in duro braccio di ferro anche con la stampa non allineata alla sua visione, l’avvento della «democrazia illiberale». E neppure abbiamo inventato gli atti con cui l’attuale governo di Varsavia continua la sua prova di forza nei confronti del potere giudiziario, condizionato sempre più dalla maggioranza politica pro tempore, che è già valsa l’apertura di un grave contenzioso con l’Unione Europea. Proprio casi come quelli che ho appena ricordato dànno contenuto al richiamo al «rispetto dello Stato di diritto» previsto nelle delibere comunitarie sul Bilancio dell’Unione e sul Piano anti-pandemia. Richiamo che Polonia e Ugheria vorrebbero cancellare, arrivando sino al punto di bloccare con il loro «veto» il via libera ai giganteschi stanziamenti solidali del Next Generation Eu. Nella vostra lettera, sostenete che il richiamo è «non meglio specificato». Cioè, sarebbe vago. La mia conclusione, in sintonia con l’ottimo collega Giovanni Maria Del Re, è esattamente contraria: l’opposizione è stata così smodata e autolesionista – in soldoni, Polonia e Ungheria rischiano di rimetterci come gli altri Paesi della Ue, e anche di più – non perché la 'condizionalità-Stato di diritto' sia vaga e debba essere precisata, ma perché è sufficientemente e scomodamente precisa e si vorrebbe renderla vaga, fino a farla evaporare. È un metodo che segna una escalation nel costante impegno di forze politiche e gruppi di interesse per rallentare e snervare il cammino di integrazione europea attorno a un nocciolo duro di valori comuni ancora troppo piccolo, che andrebbe accresciuto anche secondo l’alta visione suggerita dai Papi di questo secolo e di quello precedente, e che, di certo, non può essere impoverito. Come sapete, gentili ambasciatori, l’Unione è stata fondata da sei Paesi dell’Ovest democratico, proprio a Roma, nel secondo dopoguerra novecentesco ed è stata allargata con convinzione verso l’Est post-comunista dopo la caduta della cortina di ferro. E sapete altrettanto bene che, sin dall’inizio, è stata concepita e vissuta – pur con le sue imperfezioni – come Comunità di popoli e nazioni, alternativa ai totalitarismi neri e rossi e ai sovranismi (come si dice oggi) di ogni possibile colore. Perciò, qui ad “Avvenire”, facendo cronaca della vita e delle scelte dell’Unione e nell’Unione, diamo conto dell’eloquenza dei fatti, deludenti o consolanti che siano. E mettendo in campo analisi e opinioni esprimiamo l’augurio, caldo e appassionato, che tutti i popoli e i governi contribuiscano appieno a questo comune e cruciale cantiere di futuro. Un cantiere popolare e non populista, guidato a Bruxelles e in tutte le capitali degli Stati membri, con autorevolezza coinvogente e non con autoritarismo.