Il vero senso della sofferenza (anche quando cresce in banca)
Gentile direttore,
vedo che anche “Avvenire” si è rassegnato a una deriva linguistica che a me dà molto fastidio: l’uso del termine “sofferenze” per parlare di non so quali debiti bancari. Possiamo noi cristiani accettare questo linguaggio? Potremmo fare tanti altri esempi (la “mission” dell’impresa, ecc.) ma in particolare la parola “sofferenza” dovrebbe essere rispettata (per rispetto ai veri sofferenti nel corpo e nello spirito). Anche oggi 5 luglio, a pagina 9 di Avvenire, vi sono espressioni ambigue, paradossali, ridicole: «Il mercato delle sofferenze si sblocca», «Qualcosa si muove sul fronte delle sofferenze», «le sofferenze delle quattro banche salvate». A me viene il voltastomaco... Buon lavoro.
Un sentito grazie per l’augurio, gentile e caro don Corrado. E un gran dispiacere per il voltastomaco. Non so se riuscirò a farglielo passare... Ma – mi creda – il suo voltastomaco può avere altre e più proprie cause, può diventare effetto di una reazione all’ingiustizia: le “sofferenze bancarie”, infatti, non dicono solo di bilanci in disordine e di profitti mancati, dicono anche e soprattutto di vite e imprese umiliate, rese precarie, addirittura fallite, dicono di lavoro messo a rischio o già distrutto. Per questo il termine non è poi così strano e, forse, l’informazione che “Avvenire” fa, nel suo complesso, giorno dopo giorno aiuta a capirlo. Non c’è parola, del resto, che non abbia contesto e in relazione a quello esploda nei suoi significati. Anche ferendo. Magari – come nel suo caso – costringendo lei e noi a pensare più e meglio a ciò di cui stiamo scrivendo e leggendo. Un cordiale saluto.