Che ci siano stati docenti ideologizzati, i quali hanno usato la cattedra cercando di manipolare le giovani intelligenze, è un fatto indiscutibile. Che ce ne siano tutt’oggi, è possibile. Del resto, di quale bene non abusa l’uomo? E il bene, in questo caso, è quella libertà di insegnamento sancita nell’articolo 33 primo comma della Costituzione, che se per tutti è un valore assoluto, per chi è nella scuola costituisce un valore strumentalmente piegato all’obbiettivo dell’istituzione: la formazione del discente.Detto questo, dubito assai che la scuola di Stato sia, per ciò stesso, il luogo dell’ideologizzazione; credo che la stragrande maggioranza dei docenti abbia sempre fatto, e continui a fare, della propria professione una missione, in vista del bene di ciascun allievo e dell’intera società.Il problema invece è un altro: viene da lontano e non appare ancora definitivamente risolto. È un problema di natura culturale, prima ancora che politica e giuridica. Mi riferisco a quella che i francesi chiamano la
question scolaire, la questione scolastica, cioè il problema della libertà della scuola non promossa dallo Stato e del riconoscimento del servizio pubblico da essa compiuto. Diciamolo chiaramente: nonostante il disegno costituzionale, che da un lato riconosce e garantisce la sussistenza di scuole meramente private, libere di esistere ma "senza oneri per lo Stato", e dall’altro prevede un sistema pubblico costituito da scuole statali e scuole paritarie, una
question scolaire continua a sussistere nel nostro Paese. Nel senso che le scuole paritarie di origine "privata", in quanto traggono vita dalla società civile, continuano ad essere le cenerentole del sistema dell’istruzione pubblica. Qualche cosa è stata fatta, grazie soprattutto a un ministro della pubblica istruzione che veniva dalla sinistra: la legge sulla scuola paritaria del 2000, infatti, fu voluta da Luigi Berlinguer e vide la luce, forse, proprio perché voluta da un politico estraneo alla cultura della libertà della scuola. Ma passi avanti, in seguito, non se ne sono fatti; il sistema pubblico dell’istruzione rimane zoppo, perché uno dei due sottosistemi è finanziato irrisoriamente. Si tratta di una contraddizione insopportabile sia dal punto di vista di principio, cioè di quella costituzionale libertà delle istituzioni scolastiche che, per essere effettivamente fruibile da tutti, deve divenire concretamente accessibile a tutti; sia dal punto di vista della qualità, perché si vuole un sistema competitivo verso l’eccellenza, ma la competizione può realmente avvenire solo se i blocchi di partenza sono eguali per tutti: scuole statali e scuole paritarie.Il nostro ordinamento scolastico, da questo punto di vista, è dietro a tutti: ai Paesi del nord Europa, che prendiamo sovente a modello, ma evidentemente solo in ciò che fa comodo; ma anche ai Paesi latini. E non si tiri in ballo la solita questione della laicità: anche la laicissima Francia ha dal 1959 una legge, la legge Debré, che prevede il finanziamento pubblico della scuola non statale; altrettanto fa la Spagna (ancora oggi di Zapatero).Ogni volta che vi sono manifestazioni sulla scuola, si ripetono slogan rivendicanti il primato della "scuola pubblica" e la necessità di convogliare verso di essa soltanto risorse pubbliche. Affermazioni sacrosante, da condividere appieno, se coloro che le pronunciano non confondessero tra pubblico e statale, come invece fanno regolarmente, non si sa se in malafede o per ignoranza.Ma per un Paese che ha dato i natali a Luigi Sturzo, il cui pensiero sulla distinzione tra pubblico e statale è chiarissimo, tale confusione è davvero il colmo.