Il viaggio in Asia e Oceania . Perché il Papa va agli estremi confini della terra?
Un'immagine del viaggio del Papa in Oceania
Se le periferie hanno un ruolo determinante in questo pontificato, non c’è periferia più esemplare di quella che il Papa sta fisicamente esplorando nel suo viaggio all’altro capo del mondo, dall’Indonesia a Papua Nuova Guinea. Le cronache e le immagini di questi giorni ci stanno restituendo gli orizzonti e il respiro evangelico di Francesco che si spinge sino a una parte del pianeta così “altra” rispetto alla nostra, per la sua dislocazione ma anche per storia, culture e radici religiose.
Facciamo scorrere il mappamondo, come i bambini, e fermiamolo puntando un dito sull’immenso arcipelago degli antipodi nel quale si trova ora il Papa: è dunque questo che il Signore intendeva quando lanciava i suoi discepoli ad annunciare il Vangelo – allora e per sempre – «sino agli estremi confini della terra»?
Di certo c’è una interpretazione geografica – letterale – alla quale andiamo d’istinto: la Parola di salvezza, da un angolo di mondo già di suo periferico, ha preso il volo dall’istante di quel mandato per giungere in meno di una generazione a Roma, il centro del mondo di allora, e poi viaggiare attraverso la storia e i continenti, seguendo i passi dell’umanità lungo le rotte delle migrazioni, le carovane dei commerci, le mappe delle esplorazioni, mossa dalla forza impressa una volta per sempre nel cuore dei discepoli di ogni tempo. Fino ad arrivare anche in Oceania.
Cosa spinge ora il Papa sin laggiù, dove già suoi predecessori avevano portato la presenza di Pietro? Non è scontato chiederselo, anche oggi che le distanze sono schiacciate dall’effetto di compressione degli spazi indotto dalla cultura digitale, per cui sembra che nessun luogo sia davvero “lontano”. Ma a cambiare prospettiva e collocarla dentro le coordinate del credente – che ci sono sempre necessarie – basta cercare Vanimo, dove Bergoglio va oggi per poco più di due ore affrontandone oltre quattro in aereo per poter stare accanto anche pochi minuti con un pugno di cattolici di laggiù. Una scelta fortemente simbolica, che dovrebbe scuoterci da un certo torpore nel considerare le esigenze della fede nel tempo in cui “basta un clic” (o una domanda a ChatGpt).
No, non basta, mai. Port Moresby – il punto più lontano di un pellegrinaggio planetario – dista da Roma più di 14mila chilometri. Gli estremi confini, appunto. Ci dice ancora qualcosa questa espressione che ha spinto generazioni di missionari nelle terre più remote del pianeta? Francesco le sta restituendo il suo impeto sotto i nostri occhi. E un cuore credente non può che essergli grato perché ci mostra una volta ancora che l’annuncio cristiano non si riduce all’illustrazione persuasiva di un’idea, una dottrina o un’etica, per quanto fondate e indiscutibili, ma è ancora frontiera, ignoto, rischio, fatica, incontro, relazione. E affidamento. Capito perché il Papa prima di ogni viaggio va in Santa Maria Maggiore, lo sguardo come immerso nella Salus Populi Romani?
Nell’epoca dei webinar e delle presenze virtuali alle quali ci siamo abituati per lavoro e studio – e persino per le riunioni parrocchiali – c’è un messaggio trasparente in questo suo andare di persona in mezzo al Pacifico, a 87 anni, con la ruggine nelle articolazioni che gli consiglia di muoversi in sedia a rotelle, e una salute che ogni tanto lancia qualche allarme. Nel cuore giovane di Francesco urge la necessità di andare incontro e farsi accanto alla Chiesa e all’umanità dovunque si trovino. Uno slancio da evangelizzatore, che non calcola o delega. E ai discorsi su come rendere comprensibile il Vangelo nella cultura di oggi antepone la semplice urgenza di “uscire per seminare”. Ecco cosa lo sta spingendo ad affrontare 12 giorni di viaggio tra impegni, discorsi, incontri protocollari e informali, abbracci con malati e capi di Stato, poveri e professori, giovani, migranti e leader religiosi, per asciugare lacrime, sostenere famiglie, entusiasmare giovani, rincuorare consacrati, e poi anche scrivere un altro pezzo di storia firmando una dichiarazione congiunta con l’islam dell’estremo oriente, per “promuovere l’armonia religiosa per il bene dell’umanità”. Un apostolo in azione.
Le immagini che arrivano dall’altro capo del mondo non possono che emozionarci se mettiamo insieme distanze materiali, barriere di culture e religioni e un programma che sfinirebbe chiunque di noi, affrontato con il sorriso. E allora in questi giorni sentirsi parte della Chiesa – quella universale, che si ritrova nella nostra comunità come su un’isola del Pacifico – vuol dire anche portarsi nel cuore e nella preghiera il Papa, compagni del suo ardimentoso viaggio come lo è lui del nostro di ogni giorno. Perché ci sta mostrando come dal Vangelo prorompe ancora l’acqua della vita capace di dissetare tutti.