Putin in chiesa e il vero ruolo delle fedi. Il totalitarismo della guerra
Vladimir Putin in chiesa col cero acceso durante la messa di Pasqua è un’immagine potentissima e gravida di conseguenze drammatiche: un duro colpo alle speranze di pace – la benedizione della Chiesa ortodossa rafforza il consenso interno del leader russo – ma anche alla stessa legittimazione della religione: se di fronte ai massacri più disumani non ha nulla da dire, che senso ha una Chiesa che si dichiara fondata sul Vangelo?
La guerra è un pensiero totalitario.
Avendo a che fare con la vita e con la morte, con la vittoria e la sconfitta, essa chiude lo sguardo, escludendo sistematicamente intere parti della realtà. La logica bellica non ammette obiezioni, subito bollate come tradimenti, né dubbi, subito interpretati come diserzioni. Quando si assume il suo punto di vista, l’intera realtà è attirata in una sorta di buco nero: tutto deve essere focalizzato all’obiettivo, al punto da giustificare ogni specie di crudeltà e distruzione.
Alimentandosi dello schema binario amico-nemico, buono-cattivo, la guerra ridisegna un mondo senza sfumature, dove non c’è più alcuna possibilità di intesa. E dove perciò l’unica via d’uscita sembra che sia la vittoria del più forte.
Benedire la guerra equivale a chiudere anche l’ultima possibilità di mettere in circolo una logica diversa. Non a caso, come insegna la storia, i disastri peggiori si realizzano proprio quando la religione (o il suo surrogato, costituito dall’ideologia) e politica si fondono insieme. Nell’illusione, in cui troppo spesso cadono i religiosi, di trarre qualche beneficio per la fede dal concedere il proprio sostengo a chi comanda sulla terra.
In realtà, nel consegnarsi al potere di turno, le religioni smarriscono se stesse e perdono la loro capacità di essere sale del mondo. Mentre la politica sa bene che, per cercare di nascondere l’impresentabilità dei propri disegni, le grandi tradizioni spirituali costituiscono preziosi serbatoi di legittimazione da cui attingere.
È una tentazione che ritorna di continuo anche oggi: non solo nella Chiesa ortodossa, ma anche nel mondo islamico e in quello induista. E che è presente anche in Occidente. Tanto in quei leader che utilizzano in modo puramente strumentale i simboli religiosi per sostenere le proprie posizioni, quanto in coloro che in queste settimane si stracciano le vesti perché ritengono che il Papa debba assumere una posizione più netta a sostegno dell’Ucraina e contro la Russia.
Ma se non si tratta legittimare la guerra, quale può essere il compito delle religioni in un mondo che rischia di avvitarsi fatalmente nella spirale dello scontro di civiltà?
Nella sua autonomia, il piano religioso costituisce un terreno specifico in cui è possibile un dialogo che non si riduce alla contrapposizione di interessi, politici ed economici, che si nascondono dietro ogni guerra. Non è cosa da poco. Soprattutto se non si dimentica che la guerra è la degenerazione di un conflitto, di una tensione tra due parti che, a un certo punto, smettono di parlarsi.
Proprio attingendo a un piano diverso, e disponendo di una geografia che non coincide mai integralmente con quella politica, le religioni possono svolgere un ruolo prezioso nel contrastare la radicalizzazione dello scontro. E riportare così il conflitto a dimensioni più trattabili, più gestibili, più umane. Non a caso, nella Bibbia, la rivelazione comincia con il comandamento: Non nominare il nome di Dio invano. Che significa: non strumentalizzare Dio per scopi particolari e terreni. Il riferimento al nome di Dio serve esattamente al contrario: per aiutare a rompere lo schema totalitario imposto dalla guerra. È assumendo questo diverso sguardo che diventa possibile riaprire la realtà. Solo cambiando prospettiva diventano possibili movimenti risolutivi che nel gioco bloccato delle azioni e delle reazioni, del calcolo degli interessi e della misura del più forte sono impossibili. È quanto sta suggerendo papa Francesco.
Dire no alla guerra non significa essere anime belle, pacifisti da divano. Non significa non riconoscere o non condannare l’aggressione in corso in questo momento in Ucraina. Né negare la necessità di dare un messaggio chiaro a Vladimir Putin. Significa, al contrario, sapere che quello che va evitato è accettare la logica della guerra in cui proprio Putin vuole attirarci. E che in fondo sarebbe la sua vera 'vittoria' in un contesto contemporaneo, nel quale non si può più 'vincere'.
In un mondo diventato ormai troppo piccolo e profondamente interdipendente, l’escalation può portare solo distruzione. Guardando la realtà da un punto di diverso – che è quello di Dio – la guerra non ha mai giustificazione. Ed è proprio da quel punto di vista 'terzo' che i conflitti che si nascondono dietro ogni guerra possono essere ricondotti a una portata più gestibile. È quando si muovono sul loro proprio piano, che non è puramente storico e di potere, che le religioni possono aiutare a ritrovare ciò che in tempo di guerra sembra inafferrabile: la pace.