Il terrorismo sconfitto con fermezza e umanità. E la pena non vendetta
Gentile direttore,
in questi anni ho sempre scelto “Avvenire” come riferimento per aggiornarmi sull'attualità. Mi piace che accanto alla notizia, spesso cattiva, sia riportata una prospettiva di miglioramento e degli esempi di persone impegnate per questo. Mi piace l'attenzione, slegata dalle mode, per le persone migranti e per la pace. Vi trovo inchieste di giornalisti che ammiro moltissimo per l'impegno e il coraggio. E anche i suoi editoriali e le sue risposte ai lettori, che si sforzano sempre di dare una lettura cristiana e umana dei temi più caldi nel dibattito dell'attualità. Vorrei tornare su quanto lei ha scritto giovedì 16 febbraio, a commento della lettera del signor Giampietro Mariani a proposito del regime carcerario oggi concesso a Mario Moretti: «Credo che (...) nessuno (...) sia destinato a restare per sempre inchiodato ai propri errori anche quando fa fatica ad ammetterli pubblicamente». Vorrei condividere un pensiero e chiedere un suo chiarimento. Se una persona colpevole di omicidio fa fatica ad ammettere pubblicamente la sua colpa, penso che non l'abbia fatto nemmeno con sé stesso. In questo caso, non vedo perché debba essergli concesso un trattamento di favore. Francamente non capisco. L'uomo per il cristianesimo è libero. Se una persona non evolve e non si pente, pur con tutti gli strumenti di analisi che oggi ci sono per interpretare gli errori e orrori degli anni di piombo, si sta inchiodando da solo. Far uscire dal carcere queste persone, per di più non pentite, vanifica la condanna sociale faticosamente raggiunta nella nostra fragile democrazia. Penso ai figli di Aldo Moro e a tutti i figli delle vittime di qualsiasi delirante ideologia. E penso alle parole del Vangelo: «Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare». Non pensa che far uscire dal carcere il signor Moretti per buona condotta voglia dire scandalizzare le vittime e tutte le persone che credono nei valori del rispetto della persona e delle istituzioni? Con un cordiale saluto.
Xavier Vigorelli, Milano
Non conosco le ragioni della semilibertà (non della scarcerazione tout court) concessa a Mario Moretti dopo moltissimi anni di carcere. E so che l’ex capo brigatista rosso non ha mai dato segnali di pentimento e tantomeno si è dissociato, ma so pure che è netta e indiscutibile la sconfitta delle Br tra fermezza delle istituzioni politiche e della società civile, e saggia e umana mano tesa a coloro che si erano gettati sulla strada atroce della lotta armata contro la nostra democrazia. Non sono il giudice di sorveglianza di Moretti e neppure il suo psicologo o il suo direttore spirituale (ammesso che ne abbia uno), e credo davvero in ciò che ho scritto, anche se capisco perfettamente le ragioni della sua preoccupazione, così empatica con le vittime dei terroristi e così capace di dare voce a sacrosanti sentimenti di riprovazione sociale per gli autori di crimini efferati. Credo insomma che quando una persona ha pagato il prezzo dei suoi errori, secondo quanto stabilito dalla legge degli uomini, se la vede solo con la coscienza e con Dio. Per questo anche noi di “Avvenire”, all’unisono con cappellani e volontari delle carceri, e in sintonia con tanti uomini della legge e studiosi del diritto, abbiamo speso la nostra voce contro l’idea stessa del “fine pena mai”. Perché la pena non è una vendetta, ma dev’essere barriera all’orrore e occasione di ricostruzione morale. Certo, ci possono essere strumenti eccezionali, anche di detenzione, per contrastare fenomeni criminali gravissimi, ma nessuno può essere considerato perduto per sempre. Lo sappiamo: basta anche un solo momento per riscattare un’intera esistenza. Ricambio il suo cordiale saluto.