Lo scenario. Colpo al laboratorio del riformismo
Anzitutto, la scena nazionale. Dei Paesi arabi che hanno attraversato la cosiddetta Primavera, la Tunisia è l’unica a oggi ad aver compiuto tutti i principali passaggi democratici per rinnovare le proprie fondamenta. E ciò senza cadere nell’abisso della guerra civile. Ennahda (La Rinascita), forza islamista emanazione della Fratellanza musulmana tunisina, ha appreso l’importante lezione rigettata dai colleghi egiziani ora caduti in disgrazia: in democrazia, talvolta si vince e talvolta si perde, senza per questo rovesciare il tavolo. Impreparata a gestire l’emergenza economica, come forse sarebbe stata qualsiasi forza politica dopo più di vent’anni di vorace dittatura, La Rinascita ha resistito a più di una tentazione: in primis, a quella di una Costituzione confessionale da approntare in solitudine; poi, a quella di sfruttare la crisi politica generata dagli omicidi eccellenti di Mohammed Brahmi e Chokri Belaid, entrambi alti esponenti dell’opposizione laica, per sospendere la transizione; infine, a quella di presentare un candidato "verde" che coagulasse i consensi di tutto lo spettro islamista, fino alle frange più estreme, alle elezioni presidenziali. Sulla temperanza della Rinascita ha agito senza dubbio l’attenta vigilanza della società civile, capace di attivare anche nei momenti più difficili le proprie difese immunitarie contro qualsiasi forma di restaurazione.
Così la Tunisia, a quattro anni dal rovesciamento del regime di Zine el-Abidine Ben Ali, ha un Parlamento, una Carta costituzionale e un presidente eletti. Eppure, il seme del pluralismo politico, da cui è scaturito l’attuale governo di coalizione guidato dal primo ministro Habib Essid, non è stato sufficiente né a sconfiggere la follia jihadista endogena né a tenere lontana quella esogena. Anzi, il laboratorio tunisino, per tradizione laico, attento ai diritti delle donne e delle minoranze, è più che mai nell’occhio del mirino.L’allerta terroristica è andata crescendo senza sosta nell’ultimo anno: fra i fatti di sangue più gravi quello di un mese fa, quando quattro poliziotti sono stati uccisi nella provincia di Kasserine, turbolenta area di confine con l’Algeria. A compiere la strage una ventina di militanti islamici di Okba Ibn Nafaa, piccolo gruppo filo-qaedista. Alla maniera dei miliziani annidati nel Sinai egiziano e affiliati allo Stato islamico, gli uomini di Okba agiscono principalmente contro i servitori dello Stato e si muovono come professionisti della guerriglia, evidentemente avvezzi a frequentazioni e attrezzature di primo livello. La zona in cui è avvenuta la sparatoria di febbraio, Boulaaba, si trova a ridosso del monte Chaambi, da anni rifugio dei jihadisti tunisini e facilmente penetrabile, a Ovest, da quelli di stanza in Algeria. Okba Ibn Nafaa è sotto il fuoco delle forze dell’ordine dal dicembre del 2012, ma non è mai stato debellato. Nel 2014, in luglio, la medesima sigla ha assassinato 15 soldati in due diversi posti di blocco: la strage più sanguinosa nella storia delle forze armate tunisine. A Chaambi si trova una base militare in disuso, ma sorvegliata da pattuglie della Guardia nazionale perché geograficamente strategica. Questa, dunque, è la corrente jihadista ancora fedele ad al-Qaeda nel Maghreb (Aqmi), con parentele nel Sahel. Poi, c’è quella che trae "ispirazione" dai tagliagole di Abu Bakr al-Baghdadi, il califfo dell’Is. Il segnale più significativo è venuto con il sequestro e la decapitazione di un ufficiale della Guardia nazionale, Hassan Soltani, che, bloccato in una strada isolata di Tunisi da una dozzina di jihadisti mentre si trovava in automobile insieme al fratello, è stato rapito e poi sgozzato all’inizio di dicembre 2014. L’episodio ha suscitato forte impressione nell’opinione pubblica tunisina, come se un virus letale avesse fatto la sua comparsa improvvisa in una stagione di ritrovata fiducia e speranza. Con questi exploit di violenza ha avuto a che fare appena "entrato di ruolo" il presidente Béji Caid Essebsi, chiamato a rappresentare l’unità nazionale di fronte a una minaccia senza precedenti.
Il barbaro attacco di ieri, teso apparentemente a spargere sangue, non a fare prigionieri, sembra muoversi lungo il secondo binario terroristico, quello degli adepti della Daula al-Islamiya, lo Stato islamico appunto, drammaticamente in ascesa fra gli islamisti armati di oggi. Due gli obiettivi presi di mira, parimenti odiati: il Parlamento, in cui si discuteva di anti-terrorismo; e il Bardo, il museo più celebre di Tunisi, polo di attrazione per centinaia di migliaia di forestieri ogni anno. E a questo punto, sarà una suggestione, ma pare quasi di sentire il fragore delle ruspe e dei picconi dei jihadisti mediorientali accanirsi sul patrimonio archeologico iracheno.
Sulla deriva dei locali miliziani Ansar el-Sharia verso lo Stato islamico, sempre più vicino in virtù dell’inferno libico, i maggiori servizi segreti regionali hanno chiaro riscontro da tempo: proprio perché internamente inospitale per il jihad, la Tunisia più di tutti gli altri Paesi nordafricani ha esportato combattenti verso Siria e Iraq, e da ultimo verso la vicina Libia. I volontari sono stimati in oltre 3mila, di cui 500 sarebbero già rientrati in patria. Altri 10mila aspiranti miliziani sono stati bloccati prima della partenza per la Siria. Tutte mine vaganti in un contesto socio-economico fragile come il ghiaccio. Non solo: a detta del premier libico Abdullah al-Thani, da settimane gruppi di terroristi di Boko Haram – a loro volta simpatizzanti per Is – sono in avvicinamento verso il confine con la Tunisia. Un incubo per la piccola Repubblica nordafricana, impegnata a recuperare terreno economico. Da fine febbraio, dunque, Tunisi ha dispiegato lungo il confine di terra e di mare con la Libia unità dell’esercito, rafforzate dalla Guardia nazionale e dalla Dogana. Le forze armate tunisine constano di 27mila uomini dell’esercito, 4.000 dell’aviazione e 4.500 di marina.
Ora, la scena regionale nel suo complesso. L’aggressività del nemico jihadista pare dare ragione all’interventismo egiziano, dalla scorsa estate attivo contro le postazioni islamiste di Misurata e Tripoli in tandem con gli Emirati arabi uniti, e da alcune settimane concentrato sugli avamposti dell’Is a ridosso del proprio confine. Un coordinamento inter-arabo, da decidere nell’ambito della Lega degli Stati arabi, sembra l’unica strada per arrestare l’avanzata terroristica in modo efficace senza incorrere nell’accusa di neo-colonialismo. Ma per fare ciò sarà necessaria una netta presa di posizione del Regno dei Saud, da poco orfano di re Abdullah. Forse troppo presto per il principe ereditario Salman.