Non ce l’abbiamo con il Parlamento ridotto a teatro. Ce l’abbiamo con il fatto che quel teatro, quella gazzarra stanno raccontando una storia di impotenza. Di vanità. Una storia di immobilità. Una brutta storia. Una storia che non dovrebbe essere la nostra, adesso. Proprio in questi momenti. Con questi problemi alle porte, e dentro le porte.L’espressione «il teatro della politica», a me non ha mai scandalizzato. Non solo perché noi italiani siamo temperamenti che tendono al 'teatrale' in tutti i campi del vivere. Ma anche perché la politica è inevitabile teatro di passioni, di contrasti, di tensioni. Chiunque ha avuto anche solo una pur minima frequentazione di riunioni di condominio, o consigli di classe, o di facoltà, beh, si sarà accorto di quanto sia facile per gli italiani – tutti, non solo i politici – inscenare con maggiore o minore talento le proprie passioni o le difese dei propri interessi. Ricordo mio nonno, un romagnolo liberale, seduto davanti allo schermo della televisione durante non so quale votazione parlamentare bofonchiare: «Onorevoli? Lavandaie!». In modo colorito, dunque, già quaranta anni fa gli italiani esprimevano – come dal loggione di un teatro di lirica – approvazione o disappunto davanti allo spettacolo della politica. Fa parte della nostra storia, della nostra natura. Già gli antichi romani non si facevano mancare scenette e sceneggiate. Il problema dunque non è la teatralità di certi gesti. Ma il fatto è che ci stanno raccontando una storia poco interessante.Gli schiamazzi non coprono, non riescono a coprire un’amara verità: ci stanno offrendo una storia mediocre. Una storia lenta, una storia poco avvincente. Il fatto stesso che si passi da gesti coloriti a gesti che invece sono volgari od offensivi è il segno che – come dicono gli amanti del teatro – la storia messa in scena non 'tiene'. Non c’è pathos, ma agitazione. Non c’è passione, ma surriscaldamento. Non ci sono grandi maschere, comiche o tragiche, ma macchiette. E la storia non va. Ristagna. Solita zuppa. E infatti, come è stato notato, gli spettatori abbandonano.Al di là della cerchia stretta dei
fan, si allarga il deserto di interesse e di coinvolgimento con la politica. Possibile che i nostri attori principali non se ne accorgano? Troppo facile e sbagliato addossare la responsabilità di tutto questo a uno solo, o a un singolo schieramento. Lo stanno scrivendo a più mani il copione, sono vari e variamente disposti i drammaturghi. Alcuni di loro dicono che questo spettacolo a loro stessi non piace. E però lo fomentano. Incanalano la storia messa in scena verso esiti scontati, ripetitivi. Noiosi e vani. E così in questa specie di impotenza, di impotenza doppia – del governo a fare il governo, delle opposizioni a fare le opposizioni – cresce la stizza, la frustrazione. La scena della doppia impotenza, della raddoppiata immobilità non offre una storia interessante. In un momento in cui il nostro Paese avrebbe invece bisogno di un’altra velocità. Di scattare in avanti su problemi gravi e diffusi. Se fossimo davanti al solito momento effervescente, teatrale, pure colorito della politica italiana, non ci sarebbe da rammaricarsi tanto. Non ci sarebbe da preoccuparsi. Ma l’impressione è che invece si stia consumando qualcosa di diverso: le avvisaglie della chiusura del teatro. Le convulsioni della crisi finale. Si rischia la riduzione degli spazi dove viene gestita la democrazia a robetta poco interessante. Di questa politica si potrebbe dire quel che diceva il grande poeta Baudelaire a proposito di alcuni spettacoli a cui assisteva in certi teatri: la cosa più interessante è guardare il lampadario. E se cominciano in tanti a guardare il lampadario, può voler dire solo due cose: che si fa largo una agghiacciante perdita di stima nella democrazia, o che la vera storia va in scena altrove, in altri palazzi, in altri occulti teatri. In entrambi casi non è un buon segno per questa Italia che avrebbe bisogno di una storia più movimentata e meno caotica, più slanciata al futuro e meno ripiegata. Non di meno teatro, dunque, c’è bisogno. Ma di una storia più bella.