Opinioni

Il sovrapporsi di due Viae crucis. Il silenzio di Dio in quell'ora sospesa sull'abisso

sabato 11 aprile 2009
Nel venerdì santo d’Abruzzo, la morte ha apparecchiato la sua mensa trion­fale in quel piazzale disadorno. Duecento­cinque bare, neanche tutte quelle delle vit­time, ma comunque un colpo d’occhio an­nichilente davanti alla fredda geometria di una caserma. Duecentocinque bare in fila, ma anche, qualcuna, bianca e piccola, so­pra a una bara grande. Assurdamente pic­cole le bare bianche abbracciate a quelle scure. Bambini morti avvinghiati alla ma­dre, al padre. E ragazzi che un’ora prima di morire avevano scritto su Facebook: bevo una birra alla faccia del terremoto e vado a dormire, a domani. Quella parata alla vigilia della Pasqua, men­tre attorno, fra le macerie, fioriscono i pe­schi, pare una beffa atroce. Una settimana fa questi morti compravano colombe, e uo­va di cioccolato ai loro bambini. Dov’è ora, sembrava dire quel corteo di feretri, la vo­stra Pasqua? Dov’è la speranza di una ma­dre sopravvissuta ai suoi figli, di chi ha sca­vato cercando un fratello, di chi è vivo, ma solo? Davvero la morte ha allestito una gran­diosa prova della sua potenza, in quel piaz­zale ampio e spoglio come un altare – all’o­rizzonte l’Appennino innevato, impassibi­le. E l’ha ben visto, il cardinale Bertone, quell'laltare di morte, ha ben sentito il silenzio che tutti in quella piazza sentivano. «Ci in­chiniamo – ha esordito – dinanzi all’enigma indecifrabile della morte». Davanti a quelle duecento bare, e a quelle piccole, bianche, la prima reazione umana è tacere, e inchi­narsi – come di fronte a un troppo grande nemico. «Tutto in un attimo può cessare, tutto può finire», ha aggiunto Bertone (e noi continuavamo a pensare a quei 289, che u­na settimana fa compravano le uova per i lo­ro bambini). Il silenzio davanti a queste bare (e di quella notte, dopo l’ultimo schianto di macerie) è il silenzio – ha detto il cardinale – del Cal­vario, dopo l’ultimo grido di Cristo. Il silen­zio dell’uomo e il silenzio di Dio in quell’o­ra sospesa sull’abisso: aveva dunque, la mor­te, vinto per sempre? Straziante, vertiginoso sovrapporsi del ve­nerdì santo con questa Via crucis d’Abruz­zo; simmetria delle donne sotto la croce nel­le sacre rappresentazioni, e dell’Italia da­vanti alla tv, ieri. Come uno schiaffo pode­roso, che impone di fermarsi almeno un mo­mento. L’enigma di una morte piombata co­me uno sparviero ci interroga perentoria­mente. Davvero vince la morte, in una not­te di terremoto, come, alla fine, nelle nostre singole vite? Cos’è la Pasqua, se non la me­moria di un sepolcro vuoto, di un Dio ri­sorto dalla morte? In cosa crediamo, con chi stiamo davvero? Le facce della gente al funerale sembrava­no riflettere – nel dolore pudico, austero – spesso anche una ritrosia a rispondere alle parole del celebrante. Come di figli troppo feriti per poter serenamente credere in una resurrezione, che nella loro stessa carne sembra oggi così crudelmente smentita. E questo è così profondamente umano. Chis­sà, sul Calvario, le facce di chi stava a guar­dare; avevano creduto in un Re, e vedevano un povero corpo martoriato. Chissà che buio infinito, quando Maddalena stava davanti al sepolcro, perché il suo Signore era morto. Ma il sepolcro, era vuoto. Lo sbalordimen­to, la gioia inaudita di Maddalena che in­contra Cristo risorto. Niente di meno, cre­diamo, occorre ai padri e alle madri che han­no perso i loro figli. È un aut aut la sfida in quella piazza di bare – un aut aut anche a noi, che non abbiamo perduto nulla. Ci cre­diamo, che la morte non vince? Questa è per molti in Abruzzo «l’ora della grande fede», come ha detto l’arcivescovo Molinari; che ha chiamato per nome alcuni dei suoi fedeli scomparsi – Fabio, Franca, Alessandra... In un appello che ha fatto venire alla mente il buon pastore del Vangelo di Giovanni, che «chiama le sue pecore una per una e le con­duce fuori... e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce». In un appello ver­so un tempo in cui , ha ricordato il Papa dal­l’Apocalisse, «non ci sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate». Quando quei figli perduti saranno – davvero – riabbracciati. È la speranza cristiana: capace, nella sua cer­tezza, di sfidare il futuro.