Mini naja? Meglio il servizio civile. L'impegno che più serve
Per una curiosa coincidenza, la proposta di istituire la mini naja volontaria rilanciata dal presidente del Senato Ignazio La Russa cade proprio nei giorni in cui si ricordano i 50 anni della legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare. Un assist involontario, ma efficace per tornare a dibattere sul significato attuale del principio costituzionale di difesa della patria. Breve riepilogo: la seconda carica dello Stato domenica scorsa, al 150° anniversario della fondazione del Corpo degli Alpini ha annunciato di aver propiziato la presentazione a Palazzo Madama di un disegno di legge che consenta a giovani volontari di trascorrere sotto le armi 40 giorni. Tanti quanti, ai tempi della leva obbligatoria, erano quelli dedicati, con il Car, alla prima istruzione militare delle reclute. L’intenzione è stimolare «la volontà di aiutare la propria patria anche con un breve periodo». L’Italia formalmente ha già una legge, la 122 del 2010, approvata quando lo stesso La Russa era ministro della Difesa, che prevedeva per il triennio 2010-2012 l'organizzazione in via sperimentale di corsi di formazione a carattere teorico-pratico presso i reparti delle Forze armate, per non oltre tre settimane Ma non venne più finanziata.
Oggi si vogliono aggiungere alcuni bonus per i volontari quali i punti per la maturità e per la laurea e un punteggio aggiuntivo per i concorsi pubblici.
Piuttosto che l’addestramento di 40 giorni con bonus rilanciato dal presidente del Senato, servirebbe un serio e più forte investimento anzitutto sull’anno di volontariato sociale per ragazzi e ragazze già vigente e sempre alle prese con tagli ai bandi che ne limitano la diffusione (gli ultimi governi, interpellati ripetutamente anche dal dibattito e dagli appelli pubblicati su “Avvenire”, hanno invertito positivamente la tendenza). L’obiettivo, razionale e ambizioso, dovrebbe essere quello di istituire un periodo di servizio civile universale e obbligatorio. A cosa serve infatti puntare su una proposta di “naja bonsai” già bocciata 10 anni fa o tornare surrettiziamente a suggerire il ripristino della leva obbligatoria? Diciotto anni fa, il nostro Paese, quando era ministro della Difesa l’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, decise di sospenderla per ragioni strategiche e di bilancio puntando su un esercito più leggero e con una formazione molto più accurata. Si aggiunga che, all’epoca, la crisi del servizio militare obbligatorio era palese, dato che le domande di obiezione di coscienza avevano superato il numero dei militari che prendevano servizio a ogni scaglione.
Si può imparare a difendere la patria senza toccare le armi, esercitando un dovere di cittadinanza e di umanità imparando a trasformare le bibliche lance in aratri sin da giovani, lungo la via aperta dagli obiettori alle guerre di ogni tempo, anche quelle di oggi.
In Italia sono in tanti a pensarla così, in modo trasversale a riferimenti culturali, politici e religiosi, e pure alle generazioni. Perché tra boomers e generazione X – come ci chiamano ironicamente i ventenni di oggi – gli antichi obiettori al militare sono, appunto, trasversali e molto diffusi. E per parecchi di loro quell’esperienza di servizio fu determinante nel dare indirizzo alla propria vita privata, pubblica e professionale. Lunedì mattina, 12 dicembre, a Radio1 Rai si è potuto ascoltare uno di loro, Luca Zaia – presidente leghista della Regione Veneto – controproporre a La Russa, esponente di Fratelli d’Italia, la possibilità di far effettuare a chi lo volesse un servizio civile di 40 giorni. Il concetto di base è chiaro: istituire un servizio disarmato di difesa. Non per offrire manodopera a basso costo alla pubblica amministrazione e neppure per parcheggiare “imboscati”.
Anzi. L’obiettivo può e deve diventare l’istituzione di un servizio civile obbligatorio che raccolga il meglio dell’esperienza dell’anno di volontariato esistente, che possa durare un numero congruo di mesi (dieci come l’ultima naia o almeno sei) e che metta concretamente – come ha più volte sottolineato su questo giornale – diritti e doveri di cittadinanza, per esempio nell’attività di vigilanza e cura di territorio e ambiente davanti a emergenze endemiche e aggravate dai mutamenti climatici, nell’aiutare i fragili e i poveri per prevenire conflitti sociali.
Un servizio che possa formare anche corpi di pace civili internazionali in grado di aiutare le vittime delle guerre e delle crisi ambientali con missioni in loco. Un tempo, insomma, per formare costruttori di pace e aperto anche a chi non è ancora cittadino italiano, che diventi collante di comunità oggi sempre più fragili e strumento di partecipazione e inclusione, le grandi assente di questi anni scontenti e impauriti. E che possa, infine, attualizzare l’idea di risoluzione non violenta dei conflitti , forte negli ideali, ma da aggiornare negli strumenti alla luce delle nuove tecnologie e della nuova situazione geopolitica globale.
Utopie? Se la proposta si ampliasse fino all’istituzione di un servizio civile obbligatorio europeo, faremmo un passo avanti storico e degno di tutti coloro che hanno speso la vita per dire no alle guerre, alle armi e alla violenza.