Opinioni

La guerra ai voti di Biden. Il serio monito d'oltreoceano: picconare le regole scredita

Andrea Lavazza venerdì 6 novembre 2020

La squadra elettorale di Trump moltiplica gli appelli e i ricorsi per fermare spogli e conteggi, mentre il presidente degli Stati Uniti d’America parla di brogli e di preferenze rubate. Poi annuncia che aprirà contenziosi legali in ogni Stato in cui Biden si sarà attribuito la vittoria. Nel frattempo rappresentanti speciali del Partito repubblicano ottengono di supervisionare l’apertura delle ultime schede a Philadelphia. E gli osservatori dell’Osce accusano lo stesso capo della Casa Bianca di «palese abuso di potere» per le sue dichiarazioni tese a minare la regolarità del processo elettorale. Poche ore prima l’ambasciata americana in Costa d’Avorio si rivolgeva ai leader del Paese scosso da tumulti dopo il contestato voto di domenica per invitare a rispettare le regole e lo Stato di diritto. Formule e inviti consueti, che una forte e influente democrazia è solita rivolgere ai Paesi che ancora zoppicano su quel terreno. Come la Bielorussia, ad esempio: gli Usa non riconoscono infatti la rielezione di Lukashenko che ha portato alla rivolta nel Paese.

Il rischio in queste ore convulse è che l’America stessa si trasformi in una nazione in cui si sgretola la certezza dei risultati usciti dalle urne e si indebolisce la fiducia nella libera e trasparente espressione del consenso e nella sua fedele traduzione in seggi e cariche. L’ombra di complotti e di intrusi che si installano senza titolo né mandato sugli scranni più alti grazie alla frode sembra talmente incredibile che non basteranno alcuni tweet per farle assumere consistenza. Ma se il presidente in carica e il Partito repubblicano insisteranno sulla linea dell’opposizione a ogni costo al successo di Joe Biden, questo avrà conseguenze perniciose e pervasive.

Leggendo con attenzione i sondaggi fatti all’uscita dai seggi dalla Cnn, si scoprirà che i sostenitori di Trump manifestavano già uno scetticismo molto più alto degli elettori democratici rispetto alla regolarità delle procedure di voto. Una domanda riferita soltanto a ipotesi lontane, si può immaginare. Ma se il leader su cui si fa affidamento, in un quadro politico fortemente polarizzato, esplicita i dubbi e, anzi, li tramuta in certezze, lo scenario descritto da pochi estremisti alla caccia di pretesti diventa qualcosa di reale per tanti. Certamente, è lecito adire i tribunali quando vi sono indizi di irregolarità ed è giusto attenersi alle decisioni dei giudici quando si esprimono sul caso (alcuni verdetti d’urgenza hanno bocciato ieri le contestazioni dei repubblicani). Non è questo, tuttavia, il problema.

Il punto riguarda la fondatezza dei ricorsi e il tono dei messaggi che si trasmettono all’opinione pubblica. Un leader politico e a maggior ragione un capo di Stato ha il dovere della responsabilità, e ciò vale oggi per Trump come varrebbe, a parti invertite, per Biden. Demonizzare il populismo con lo snobismo delle élite che poi dimenticano la maggioranza delle persone e i loro problemi reali a favore di alcune battaglie simboliche di ristrette minoranze è stato (e forse ancora è) l’errore capitale di liberal e progressisti in America e in Europa. Sarebbe ugualmente (e forse ancora più) esiziale dimenticare come pure il rapporto diretto con la gente, utile quando scavalca e ignora le forme più burocratiche della rappresentanza formale, non può reggere al di fuori della cornice generale della democrazia liberale per come la conosciamo oggi. I difetti e i limiti di questa forma di governo non autorizzano nessuno ad avvelenare i pozzi della fiducia cui tutti si abbeverano. Senza una minima condivisione e senza rispetto delle procedure e delle garanzie, si aprono le porte alla confusione e all’anarchia o all’arbitrio di un autocrate (spesso il secondo è invocato quando le prime hanno stancato). E prima di questa sequenza c’è il rischio concreto che la violenza entri nelle piazze già tese con malindirizzati appelli alla 'resistenza'.

Non volendo drammatizzare, certamente a essere penalizzata nel breve periodo – come altri hanno già sottolineato – sarà l’immagine dell’America all’estero e la sua capacità di essere un modello e un interlocutore credibile in contesti di mancato rispetto dei diritti. A Mosca, a Pechino, a Teheran non potevano sperare di più: che cosa di meglio della paralisi sui risultati, dell’incertezza, della battaglia legale e dello spettro di un presidente (chiunque egli sia) indebolito nella legittimità e nell’azione da un voto che, alla fine, molti potrebbero continuare a giudicare né regolare né corretto. Non è solo colpa di Trump. Ed è una lezione che tutti possiamo imparare (seppur a non poco prezzo, dato il peso e l’influenza che Washington ha nel mondo): preservare un comune sentire intorno ai valori e alle regole di base che tutti possiamo condividere è un tesoro così prezioso, un capitale così difficile da ricostruire, che nessuna ragione contingente dovrebbe indurre a dilapidarlo.