Potere, vittime e complici dei narcos. Strage di mormoni in Messico: sangue e soldi
«L'enormità del crimine uccide il linguaggio. Non ho altra parola che il mio abbraccio profondo, doloroso». Così il poeta Javier Sicilia ha commentato il massacro dell’altro ieri di nove familiari dell’amico e compagno di impegno per la pace, Julián LeBarón. In realtà, la sua frase va ben oltre la singola, tremenda vicenda.
Per la sua unicità la strage è balzata alla ribalta dei media. Ma essa sintetizza la realtà messicana degli ultimi 13 anni. Dal 2006 – quando l’allora presidente Felipe Calderón ha dichiarato guerra al crimine organizzato –, l’asticella della brutalità continua a innalzarsi giorno dopo giorno. Fino all’attuale record di 100 morti al giorno, per un totale di quasi 37mila l’anno scorso, il più violento di sempre. Almeno fino al 2019, che è pronto a superarlo. Cifre comparabili al conflitto siriano. Eppure, a parte la drammatica scomparsa dei 43 studenti di Ayotzinapa a Iguala, il 26 settembre 2014, finora poche di queste tragedie hanno squarciato il velo mediatico globale. Importante in questo senso è stata anche l’efficace "gestione dei media" da parte dei cartelli del narcotraffico, vere e proprie multinazionali del crimine, in grado di controllare ampie porzioni di territorio, grazie alla cooptazione di interi pezzi di istituzioni.
I narcos hanno preceduto il Daesh nella creazione di un’iconografia dell’orrore come arma – da abbinarsi a quelle reali – per imporre le proprie leggi efferate sulla società. I corpi appesi sotto i cavalcavia, l’esposizione delle teste decapitate, i video su internet di torture e omicidi hanno marchiato a fuoco l’ultimo decennio. Al contempo, le mafie hanno influito pesantemente sui media nazionali a seconda della propria "linea editoriale". In particolare, Los Zetas – e i vari emulatori – hanno imbavagliato letteralmente l’Est del Paese, trasformato in una gigantesca zona de silencio. Là, alla stampa è vietato diffondere qualunque notizia sulle vicende criminali. Il cartello di Sinaloa – e bande affini –, invece, impiega nell’Ovest un criterio più elastico, consentendo a giornali e tv di informare e, anzi, diffondere nei dettagli le "gesta" dei boss. A meno che qualche inchiesta non arrivi a toccare direttamente i suoi interessi. Nel caso LeBarón, ad esempio, i media sono potuti arrivare quasi un giorno dopo a causa dell’isolamento imposto dai narcos. I 131 giornalisti assassinati dal 2000, dodici solo da gennaio, dimostrano che cosa implichi "superare i confini" imposti dal crimine.
Il dramma messicano, però – nonostante l’attenzione di alcuni coraggiosi reporter, fuori e dentro il Paese – difficilmente riesce a catturare la ribalta informativa mondiale, se non in termini da caricatura, vedi alcune serie tv. La strage dei LeBarón, ora, l’ha fatto. Conta che le vittime fossero tre donne e sei bambini – i più piccoli in fasce –, tutti esponenti di una comunità mormona più volte colpita dai narcos a causa del suo impegno anti-violenza e parenti del noto attivista Julián LeBarón. La loro doppia cittadinanza – messicana e Usa –, inoltre, ha spinto Donald Trump a intervenire nel dibattito. A gamba tesa. «È giunto il tempo che il Messico, con l’aiuto degli Stati Uniti, dichiari guerra ai cartelli della droga», ha detto. In realtà, il conflitto è stato già dichiarato 13 anni fa.
E non ha funzionato, perché i narcos avevano già catturato pezzi di Stato, inclusi corpi di polizia e divisioni militari che, schierati per le strade, hanno cominciato a combattere per il cartello di riferimento e non per l’interesse pubblico.
L’attuale amministrazione messicana di Andrés Manuel López Obrador aveva promesso di cambiare rotta. L’approccio bellico sarebbe stato sostituito da una strategia sociale integrale per eliminare le cause del crimine. Al di là dei proclami, però, un anno dopo l’entrata in carica, il presidente s’è limitato a creare una nuova Guardia nazionale, impegnata finora più a fermare i migranti centroamericani diretti verso gli Usa, in modo da non irritare Washington, che nella lotta ai cartelli. Nei confronti di questi ultimi, Obrador ha mostrato mancanza di strategia. Lo ha dimostrato anche quando, nel rifiutare l’offerta di Trump, e accettando solo una collaborazione nelle indagini, ha mancato di ricordargli che il problema della droga messicano è, al contempo, il problema della droga Usa, primo consumatore e centro di riciclaggio dei soldi dei narcos. E di chiedergli l’unica cooperazione indispensabile: quella per fermare il flusso di denaro che varca indisturbato il Rio Bravo – a differenza dei bad hombres migranti – e torna indietro pulito. Per alimentare la macchina della morte dei narcos.