Opinioni

editoriale. Il saluto della Fiat a Torino Cosa resta dell'auto in Italia

Giancarlo Galli giovedì 31 luglio 2014
Correva l’anno 1898. In una sonnolenta Torino orfana del titolo Capitale d’Italia, l’Esposizione Nazionale ha risvegliato animi e ambizioni. Al caffè Burello, in corso Vittorio Emanuele dove da tempo immemorabile si contrattavano cavalli e carrozze, il conte Carlo Cacherano di Bricherasio, raccoglie fondi dopo un viaggio in Francia e in Germania dove già Renault e Daimler producono automobili. Il trentenne Giovanni Agnelli, possidente terriero, appassionato di motori (in servizio militare a Verona aveva gareggiato coi tricicli Prunelle), sottoscritta una quota, è nominato segretario della Fiat, Fabbrica Italiana Automobili Trattori. Dallo stabilimento in via Dante, già nel 1901 escono 73 automobili, per la metà esportate in Gran Bretagna e Russia. A Torino, la concorrenza è però fortissima: Itala, Rapid, Diatto, Scat, Aquila, San Giorgio.Giovanni Agnelli le sbaraglia una dopo l’altra, complice la crisi economica del 1906 che mette in difficoltà finanziarie la stessa Fiat: svalutazione del capitale e crollo in Borsa: sa 1885 a 40 lire. L’unico fra i compagni d’avventura a non farsi prendere dal panico, è Giovanni Agnelli. Con incredibile coraggio, rastrellando titoli a prezzi stracciati, diviene il signor Fiat. Il 'miracolo' si tinge di giallo: perché le banche, la Commerciale in primis, hanno aiutato l’ex segretario nella scalata? Defatiganti processi per aggiotaggio finiranno nel nulla, mentre prende corpo una leggenda che forse tale non è, in qualche modo legando il passato remoto al presente. In pieno boom del settore, eppure inquieto del divenire, nel 1905 Giovanni Agnelli sarebbe partito da Torino per Detroit, USA, incontrandosi con Henry Ford, paladino di un’avveniristica teoria socioeconomica: «Gli operai si recheranno in officina con le auto da loro stessi prodotte». Se del viaggio mancano riscontri certi, abbiamo invece quello con magnate della gomma Giovan Battista Pirelli. In visita allo stabilimento di via Dante, bruciante commento: «Credo che le automobili saranno un buon accessorio per i miei pneumatici».  Industria & politica. L’Agnelli 1° è grande amico dello statista Giovanni Giolitti da Mondovì. Sarà la Fiat a fornire al Regio Esercito i 'cammelli motorizzati' decisivi per la conquista della Libia. Nel 1918, ha 40 mila dipendenti, fabbrica decine di migliaia di automezzi (176 al giorno, per sostenere la difesa sul Piave), mitragliatori e motori avio. Giovanni Agnelli, pur 'neutralista' al pari di Giolitti, da imprenditore di prima grandezza ha voce in capitolo a Roma, nel comitato centrale per la mobilitazione industriale. La pace vede l’azienda pronta alla riconversione produttiva: dal militare al civile. Superata la stagione degli scioperi, dell’occupazione delle fabbriche, trovata in Vittorio Valletta la spalla manageriale, Giovanni è nuovamente a Detroit da Henry Ford importando le tecniche delle catene di montaggio. Vanto del nuovissimo stabilimento di Mirafiori, inaugurato dal Re Vittorio Emanuele III e Mussolini. Un gravissimo lutto colpisce la famiglia, con la morte in un incidente aereo del figlio Eduardo, erede designato. Per la successione, punta sul nipotino Gianni, classe 1921: gli Agnelli sono ormai una dinastia imprenditoriale alla guida della Fiat, fra gli artefici della ricostruzione e della modernizzazione dell’Italia. Anni ruggenti, in cui emerge la 'vocazione internazionale' della Fiat. Nell’era della presidenza Valletta (Gianni 'vice') marchiati dalla costruzione degli stabilimenti di Togliattigrad sul Volga, in Urss, Krakujevac nella Jugoslavia titina. Gianni lavorando sotto traccia, vola ancora più in alto: l’America è il suo grande amore. Casa a New York, consuetudine coi Kennedy e il potentissimo Henry Kissinger. Nei turbinosi anni settanta, la tentazione di lasciare l’Italia. Lo dissuade Enrico Cuccia, dominus di Mediobanca: «Un ufficiale non abbandona la nave in pericolo». Col fratello Umberto e Cesare Romiti, rilancia l’azienda, ma gli States rimangono al centro dei suoi pensieri, poiché la globalizzazione trionfante sta facendo cadere le frontiere.  Alla morte di Gianni ed Umberto, toccherà dopo altre traversie al nipote John Elkann (primogenito della sorella Margherita, nato nel 1976 a New York) e al brillante manager italocanadese Sergio Marchionne, trasformare il sogno in realtà. Attraverso la fusione con la risanata Chrysler, nascerà la Fiat Chrysler Automobiles, quotata a Wall Street 225 mila dipendenti, 159 stabilimenti in quattro continenti, il dollaro quale valuta di riferimento per un fatturato superiore ai cento miliardi. Sesto posto nella graduatoria mondiale, alle spalle di Volkswagen, Toyota, Daimler, General Motors, e Ford. Con però dichiarate ambizioni di scalare la classifica.Venerdì 1° agosto, nell’assemblea al lingotto di Torino, si chiuderà un ciclo: trasferimento in Olanda della sede legale e nel Regno Unito di quella fiscale; il Quartier Generale a Detroit. «Viviamo in un mondo senza confini», sostiene  Sergio Marchionne. Che resterà in Italia? Parecchio sulla carta: gli stabilimenti di Grugliasco (Maserati), Cassino (Alfa Romeo Giulietta, Lancia Delta, Fiat Bravo), Pomigliano (Panda), Mirafiori (Alfa), Melfi ( Jeep e Punto), in Abruzzo i furgoni Ducato. Complessivamente un potenziale produttivo di oltre 600 mila quattroruote, nonché 1500 dipendenti (impiegati, tecnici, stilisti) nella 'officina 82', su un’area ristrutturata prossima a Mirafiori. «A ribadire lo storico radicamento torinese», nel giudizio del sindaco Piero Fassino. Eccellenti propositi, dunque. Sui quali non è lecito dubitare, sebbene sommando i numeri (peraltro in continua evoluzione considerata la crisi del settore), emerge che a 'pieno regime' gli stabilimenti italiani rappresenteranno fra il 15 e il 20 per cento della produzione. Con peraltro molteplici interrogativi: in primis, i 'costi', da noi ben più gravosi che in Brasile, Polonia, Serbia e financo gli USA; cui vanno a sommarsi i problemi connessi alla produttività. Senza dimenticare la durissima concorrenza, tedesca e giapponese. Tanto più che, inutile nasconderlo, la vera sfida è sui mercati asiatici, dalla Cina all’India con i loro tre miliardi di abitanti. Elkann & Marchionne, nonostante le criticità finanziarie, hanno gettato il cuore oltre gli ostacoli. Mantenendo un indissolubile legame col glorioso passato: il 30 per cento del capitale (in sostanza la maggioranza di controllo), resterà attraverso la Exor nelle mani della famiglia Agnelli. Quasi un atto di fede nel futuro, onorando gli antenati.