Opinioni

Editoriale. A cosa porta la polarizzazione degli schieramenti

Mauro Magatti sabato 20 luglio 2024

Nelle ultime settimane due Paesi di riferimento per il mondo occidentale hanno attraversato momenti drammatici della loro storia. La Francia, a seguito della decisione del presidente Macron di indire elezioni generali, nel giro di poche settimane si è ritrovata un Paese spaccato. L’alleanza elettorale della sinistra ha sì impedito la vittoria di Marine Le Pen, ma si trova adesso alle prese con la difficoltà di formare un nuovo governo.
Gli Stati Uniti hanno vissuto prima il trauma di un dibattito televisivo in cui il presidente in carica è apparso in evidente in difficoltà a causa dell’età avanzata, e poi il tentato omicidio del candidato dell’opposizione Donald Trump, sfiorato da un colpo sparato da un ragazzo di vent’anni. Episodio gravissimo, cui hanno fatto seguito accuse reciproche che scavano ancora di più il fossato tra le parti contrapposte. Entrambi i Paesi sono spaccati in due. Politicamente e culturalmente. Di fronte a quello che sta avvenendo è necessario dunque porsi delle domande: che cosa è all’origine di una polarizzazione così marcata? E come è possibile avviare processi in grado di ricomporla?
Ciò che è grave non è tanto che la si pensi diversamente. La pluralità delle posizioni in democrazia è fisiologica e positiva. Il punto è che oggi la pluralità è sacrificata a favore della polarizzazione: due soli schieramenti su posizioni opposte, che non si riconoscono reciprocamente ma mirano ad annientarsi a vicenda. Il che finisce per alimentare quell’odio sociale che poi si scarica nelle tante forme di violenza diffusa che vediamo attorno a noi.
Sappiamo che, al di là delle variazioni nazionali, i partiti della destra populista si radicano in tre gruppi sociali. Il primo gruppo è costituito da ceti medi e popolari che faticano a conservare e riprodurre il loro livello di vita. E che comunque vivono il tempo presente più come una minaccia che come un’opportunità. Questi gruppi sono concentrati nelle regioni meno centrali e nelle aree periferiche. Il secondo gruppo è costituito per lo più da quegli interessi economici legati alle industrie tradizionali (per esempio, negli Usa, all’energia fossile). Interessi, cioè, che si sentono minacciati da un’innovazione tecnologica molto spinta e sempre più accelerata (con le eccezioni americane di Elon Musk e Peter Thiel). Infine, il terzo gruppo è costituito da chi si sente deprivato culturalmente della propria identità. Semplicemente perché non riesce a concepire un mondo in cui vengono messi in discussione elementi da sempre fondamentali per la propria esistenza. Soprattutto ciò che ruota attorno alle relazioni di genere e alla riproduzione biologica, in cui stanno avvenendo trasformazioni radicali. Spesso questi gruppi sono tenuti insieme dal collante religioso. Non è un caso che tutte le Chiese siano attraversate in questi anni da forte spinte fondamentaliste.
Dall’altra parte, sul fronte progressista, si ritrovano coloro che salutano il cambiamento tecnologico come la chiave per affrontare e risolvere le questioni economiche e sociali. Ne fanno parte i ceti più istruiti e libertari che, spesso proprio in relazione al cambiamento tecnologico, affermano la necessità di una nuova etica centrata sul principio di non discriminazione. Che trasforma l’idea di tolleranza intesa come “c’è verità anche altrove che in me” nell’idea che “le differenze sono indifferenti”. Dopo aver dismesso il tentativo di imporre l’uguaglianza economica attraverso l’azione dello Stato, la sinistra oggi persegue l’uguaglianza degli orientamenti e degli stili di vita per legge. Non è per caso che il Gay Pride abbia costituito in questi anni la forma di mobilitazione collettiva più imponente che ha accomunato l’azione e il pensiero progressista.
In definitiva, la spaccatura che attraversa le democrazie combina il piano economico e quello culturale. Va considerata come un sintomo della fatica di adattamento al velocissimo cambiamento che caratterizza la vita nelle le società avanzate. Pensare che una delle due parti possa affermarsi sull’altra, non tanto grazie a un’elezione ma all’interno della società, appare in questo momento irrealistico. Ma se questo è vero, allora il rischio è che le democrazie si lacerino in un conflitto sempre più aspro. Fino ad arrivare, in alcuni casi, al limite della guerra civile. Soprattutto quando gli interpreti politici, per speculazione elettorale, invece di contenere le differenze le esasperano. Come sia possibile uscire da tale impasse non è dato di sapere. Ma il primo passo è comunque chiaro: riconoscere da parte di tutti la gravità del momento che stiamo attraversando. A partire da questa consapevolezza non è ingiustificato chiedere a entrambe le parti di riconoscere la legittimità degli argomenti che l’altra solleva. Invece che pensare semplicemente ad affermare il proprio punto di vista, è il momento di cercare insieme un punto più avanzato, che permetta ai popoli di riconciliarsi, guardando con speranza al futuro. Le sfide del tempo sono così impegnative da meritare la ricerca di risposte condivise.