Fraternità. Il respiro e l'amore nell'ora della distanza
In questi giorni il mondo che credevamo di conoscere si sta sgretolando sotto l’incalzare di un nemico invisibile, in parte sconosciuto e ancora imprevedibile. Fortunatamente, per i più, questo significa solo lo sconvolgimento delle proprie prassi quotidiane, del proprio lavoro, una apertura di credito verso l’ignoto futuro prossimo che non si può quantificare. Fortunatamente, perché comunque sia questi sono coloro che un futuro lo avranno, per difficile che sia. Il pensiero, invece, va a chi è passato improvvisamente da una vita che solo ora consideriamo normale, a una ambulanza, quindi a un reparto abbastanza terrificante dove persone certamente encomiabili, ma intangibili al malato, drenano giocoforza ogni residuo di contatto umano, infine alla progressiva mancanza di respiro che dissolve l’esistenza con il passo inesorabile di una garrota invisibile.
Tutto questo con una pena in più. In un istante, prima che la propria vita, vengono recisi tutti i contatti, gli affetti, ogni possibile consolazione, prologo di una fine che sembra un incubo solo a immaginarla.
So anch’io che le circostanze non riescono a garantire di più. Ho molti amici tra i medici sugli spalti in questo momento a combattere il contagio, in alcuni degli ospedali principali delle Marche e della Lombardia. Mi raccontano i miracoli che fanno e la abnegazione che permetterà a molti di curarsi. Eppure al pensiero di quelle morti avvenute in camera asettica, dove insieme all’aria spariscono anche gli amori, dico che nessun essere umano dovrebbe essere privato del conforto di un affetto che possa anche accompagnarlo verso la fine.
Gli sforzi che si fanno per salvare le vite sono innumerevoli, ma non si deve mai dimenticare che l’uomo non è solo sopravvivenza fisica. È allo stesso modo, e forse di più, relazione, affettività e pensiero, gesto e vicinanza. Penso che pur nell’emergenza, una parte dell’attrezzatura dovrebbe essere volta a garantire un minimo sindacale di umanità alla cura e ancor più alla morte. Una tuta, almeno una, dovrebbe essere riservata anche agli affetti del malato per permettere loro di essere vicini per quanto possibile a chi una seconda chance non la avrà. La impossibilità anche solo di salutare chi si ama in un momento che non ammette repliche è una tortura nella tortura.
Con emergenze come queste si rischia di finire per considerare l’uomo come un meccanismo da preservare, dimenticandosi di quello che fa dell’uomo ciò che è. Il mio invito e auspicio è che le priorità pragmatiche, le sacrosante preoccupazioni, la sollecitudine per i più fragili e vulnerabili non trascurino l’amore per l’uomo nel suo complesso.
Anche quando si parla di restrizione e normative. Anche quando si rischia di andare oltre la prevenzione instillando con parole inappropriate e titoli altisonanti e grevi la diffidenza indifferenziata verso l’altro, con la conseguente caccia all’untore, molto simile a quella 'legge di Lynch' (madre, schiavista, del linciaggio moderno) che tanti orrori ha causato nella storia americana e non solo. La retorica non è un antidoto, né in questo né in nessun caso. L’antidoto è sforzarsi di ritrovare in ogni singolo uomo un fratello, i cui errori, imperfezioni, malattie richiedono prima di ogni cosa la nostra vicinanza incondizionata anche nell’ora della distanza responsabile, che ci collega e che ci salva.