È una questione di priorità, di parole da restituire al loro significato, di fiato e cuore con cui alimentare la speranza. In Ucraina, in Medio Oriente, in ogni luogo dove si combatte, oggi come sempre nella storia si tratta di calare l’ipoteca di futuro nella realtà concreta, di non avvitarsi dentro ai sogni, di cercare la verità e la giustizia percorrendo anche, se necessario, strade che in apparenza sembrano portarci altrove. E il Papa lo sa. Sa che per fermare la guerra nel cuore dell’Europa basterebbe che Putin, l’aggressore, si ritirasse. Sa che il popolo ucraino vede arrivarsi addosso senza colpa missili assassini. Così come sa che Hamas il 7 ottobre 2023 ha commesso un agguato terroristico devastante, che, come un unico effetto, ha avuto la reazione violentissima dell’esercito israeliano sui palestinesi della striscia di Gaza. Ma al tempo stesso sa che niente vale di più della vita umana, che è la sua tutela il fondamento su cui costruire la pace. Per questo continua, ininterrottamente, senza stancarsi mai, a chiedere lo stop alle armi, a denunciare che ogni conflitto è sempre una sconfitta, a richiamare al coraggio della diplomazia. Anche a rischio di essere frainteso, malgrado la strumentalizzazione di chi interpreta la richiesta di negoziato come un invito alla resa.
Al contrario, incontrarsi, magari guardandosi in cagnesco, sebbene da nemici, è la via stretta da percorrere se si vuole dare una chance alla riconciliazione, evitando che il mondo scivoli in un conflitto ancora più esteso. Lo dice la lezione della storia, lo certificano l’intelligenza e la libertà che sono le colonne di sostegno alla prudenza, virtù di cui il Papa ha parlato nella sua ultima catechesi. Una dote che si addice ai capi, ai leader e la cui lezione di realtà andrebbe recuperata. Non è infatti sinonimo di indolenza o di rassegnazione ma al contrario strumento, radice di discernimento. Perché la persona prudente, sottolinea il Papa, «cerca di comprendere la complessità del reale» al di là della pigrizia e delle emozioni. Come si capisce, nella nostra società malata di “immediatezza”, schiava del “tutto e subito” se non si tratta di rivoluzione poco ci manca. Contiene persino l’invito a considerare la rinuncia a un piccolo pezzetto di giustizia in nome di un bene sicuro, concreto, palpabile. Confidando poi di costruire proprio su quelle fondamenta salde e accettate da ogni parte in causa, un edificio più largo, distribuito in modo equo, in cui sia possibile vivere insieme. Perché a volte lo zelo eccessivo diventa una zavorra e per un piccolo mattone in più, posizionato in un certo modo, si rischia di far crollare l’edificio intero. La storia della Terra Santa, dell’eterno conflitto tra israeliani e palestinesi e delle situazioni in cui la pace sembrava a portata di mano sta lì a dimostrarlo.
Prudenza, dunque, non come invito a lasciare il mondo girare senza intervenire ma come scuola dove imparare l’impegno per il bene comune, individuando modi e strumenti per realizzarlo. Non a caso Aristotele definisce la prudenza “saggezza pratica” mentre per Tommaso d’Aquino è la guida, lui la definisce “il cocchiere”, di ogni virtù. E qui l’autore della Summa Theologiae sembra parlare a un sarto chiamato a realizzare un abito su misura per chi si impegna in politica, nella sua accezione nobile, quella che Paolo VI riprendendo Pio XI definiva la “più alta forma di carità” «perché più vasta, efficace ed importante». Papa Francesco nella sua ultima catechesi dice che Dio non ci vuole solo santi, ma santi intelligenti, capaci cioè di individuare le strade più efficaci per realizzare la volontà del Padre. Vale, naturalmente, innanzitutto per la “conquista” della pace che, scrive Giovanni XXIII nella Pacem in terris si fonda su quattro pilastri: verità, giustizia, carità e libertà. Principi imprescindibili che si vedono e si raggiungono meglio se guidati dalla luce accesa della prudenza.