Editoriale. Il pungolo del referendum
Il deposito in Cassazione di un milione e 300mila firme per il referendum abrogativo dell’autonomia regionale differenziata, insieme allo sprint che martedì scorso ha portato in poche ore al raggiungimento delle 500mila sottoscrizioni per il quesito sulla cittadinanza, denota un rinnovato fermento di partecipazione “dal basso”, seppure dietro la spinta di un grande sindacato come la Cgil e dei partiti dell’opposizione. Ma si presta anche a una serie di riflessioni sugli strumenti della nostra democrazia. Una democrazia che la Costituzione ha disegnato come parlamentare.
La prima riflessione riguarda proprio il ricorso al referendum, formidabile arma di democrazia diretta. La possibilità di firmare online, novità di appena due mesi fa, ha reso senz’altro più agevole l’adesione, anche se è stato già osservato che serve comunque una certa motivazione e una qualche perizia digitale per destreggiarsi sulla piattaforma messa a disposizione dal ministero della Giustizia. E, giustamente, c’è chi sottolinea che non tutti i quesiti raccolgono online lo stesso gradimento. Insomma, il raggiungimento della soglia minima di adesioni non è diventato automatico grazie a internet. Firmare e far firmare, per i cittadini e per i promotori, è diventato però innegabilmente più “comodo” e questa comodità può contenere la tentazione di inflazionare l’iniziativa referendaria, un pericolo che era già stato avvertito in passato per ragioni diverse. Non è nuova, infatti, né legata alla raccolta di firme sul web, la proposta di innalzare ad almeno un milione la soglia minima necessaria e magari anche di ridurre il quorum richiesto per validare il risultato dei referendum, visto l’ormai cronico calo di affluenza alle urne.
Ma, a maggior ragione oggi, andrebbe presa in considerazione, proprio per non svilire o rendere vano un prezioso canale di democrazia.
Una seconda osservazione, sempre sul referendum, riguarda gli effetti che può produrre. Per restare alla stretta attualità, il quesito sull’autonomia provocherebbe l’abrogazione totale della legge Calderoli (anche se cinque Consigli regionali ne hanno presentato uno pure per l’abrogazione parziale, qualora non venisse accolto il primo) facendo tornare la situazione precedente: l’autonomia regionale differenziata sarebbe comunque resa possibile dalla Costituzione all’articolo 116, ma verrebbe meno la legge ordinaria che la disciplina. E, detto per inciso, secondo autorevoli giuristi tale legge non sarebbe nemmeno necessaria.
Più delicato, invece, il discorso relativo alla legge sulla cittadinanza: in questo caso il referendum si propone di “tagliare” due punti del primo comma dell’articolo 9 della legge attualmente in vigore sulla cittadinanza (la legge 91 del 1992) al fine di dimezzare da 10 a 5 gli anni di residenza legale nel nostro Paese per poter ottenere il passaporto italiano. Ma un tema così importante - e una riforma, lo ribadiamo, così necessaria - meriterebbero una vera e propria riforma organica. Era stato detto anche due settimane fa in occasione dell’emendamento di Azione sullo Ius scholae, ricalcato su quanto aveva annunciato di voler fare Forza Italia, ma che poi gli azzurri stessi non hanno votato, promettendo una loro proposta. Un’occasione persa, avevamo commentato, perché almeno l’emendamento agiva sulla normativa vigente modificandola. Il quesito referendario, invece, la cambierebbe “per sottrazione” chirurgica, con tutti i rischi (anche di ammissibilità) che tale metodo comporta. La mobilitazione per il referendum, che questo passi o meno l’esame della Corte costituzionale, va comunque salutata come un ottimo segnale e, auspicabilmente, come uno sprone al Parlamento a occuparsi, finalmente e seriamente, della materia.
Si torna così al ruolo delle Camere, cuore di una democrazia parlamentare. Sarebbe bello, oltre che giusto e pienamente conforme alla Costituzione, che il Parlamento fosse il luogo di una produzione legislativa anche svincolata dall’iniziativa governativa, una produzione che - quando serve e vale la pena - abbia la grandezza e il coraggio di scavalcare lo steccato che divide i gruppi di maggioranza da quelli di opposizione.