Opinioni

La terribile chat sulla Shoah. Il problema dei ragazzi siamo proprio noi adulti

Davide Rondoni giovedì 17 ottobre 2019

Da anni diciamo, gridiamo in ogni modo che in Italia c’è una emergenza educativa. Insomma, siamo seduti su una bomba. Che non è il debito pubblico, è un debito ben maggiore. È la fatica, la difficoltà, il fallimento educativo che investe il nostro Paese, e di cui sembra ci si ricordi solo all’emergere di notizie orrende come la esistenza di chat (l’ambiente social di conversazione di gruppo) su cui adolescenti si scambiano tra l’incosciente e il perverso contenuti terribili a proposito dell’immenso crimine della Shoah, lo sterminio degli ebrei, cuore di tenebra della guerra nazista e razzista a ogni diversità. Fallimento educativo, sì. Lo gridiamo da anni, perché girando scuole e città vediamo una malattia che ha tre caratteristiche principali.

La prima è la carenza di adulti, ovvero di persone che si pongano dinanzi ai più giovani con la consapevolezza di un compito educativo importante. Si è voluto ridurre gli insegnanti a trasmettitori di competenze, ma un adulto dinanzi a un giovane è innanzitutto, volente o nolente, un trasmettitore di senso, di ideale, di prospettiva. Molti insegnanti lo sanno e si sentono mortificati in una gabbia burocratica e un paradigma di istruzione che succhia energie e distrae dal compito educativo. La società in cui viviamo inoltre non prevede che i giovani, al di là della scuola, passino del tempo con gli adulti. A casa è raro, e si sa che a un certo punto l’influenza dei genitori è fragile. Ma tranne che per quella fascia di ragazzi che partecipano ad attività sportive o artistiche o religiose, il rapporto con adulti è minimo. E così molti tendono e fanno branco, ovviamente, tra loro, lontano da adulti (visti quasi solo con il registro in mano) e spesso nutriti da mode musicali che riversano fango sulla vita, mode non lanciate da ragazzini, ma da adulti che li usano. Non botteghe, non sezioni di partito, sempre meno oratori, non circoli culturali. Eppure là dove qualche adulto ha il coraggio di porsi come guida e accompagnamento, i giovani riconoscono il valore della cosa. Ma è sempre più difficile, anche per motivi di burocrazia, di norme, di sospetti. Il secondo elemento di tale malattia è la presunzione che riversando quintali di retorica su temi importanti (dalla ecologia alla fratellanza) si ottenga qualche risultato. Ma la retorica non ha mai educato nessuno. Occorre la vicinanza nel rischio della scoperta della vita.

Il terzo elemento della malattia educativa è la paura di farsi domande, quelle domande che un giovane invece si trova naturalmente ad affrontare nel momento in cui rischiosamente incontra le esperienze importanti, dall’amore alla morte, dalla scoperta del corpo e dei limiti. Cosa è la vera libertà? la vita è una fregatura? c’è un senso a questo viaggio? Quanti adulti davvero discutono di queste cose tra loro e con i nostri ragazzi? e cosa hanno da dire? Si copre tutto con la richiesta di buone maniere, di politicamente corretto, di controcorrente artefatto e, ovviamente, con la retorica. Mesi fa in una scuola un ragazzo lesse un testo che finiva con «E io sono all’inferno». Applausi dell’assemblea composta da ragazzi e insegnanti. Al che blocco l’applauso e chiedo: che fate? applaudite uno che dice di stare all’inferno? o state scherzando, o sta scherzando lui, oppure, vi sentite tutti all’inferno. Silenzio, anche degli insegnanti.

Non accuso nessuno, ma non mi stupisco che se un giovane crede di essere in una specie di inferno abbia poi un atteggiamento distruttivo, anche banalmente offensivo o dispregiativo. Ma perché ha maturato questa idea? da quali autori? da quale clima, da quale noia, da che organizzazione della sua vita? da che cinismo respirato intorno? Basta commenti banali dinanzi a fatti gravi. Il problema dei ragazzi siamo noi adulti.