Chiesa e mondo: la lavanda dei piedi e il lavarsene le mani. Il potere è puro «servizio» (ai cristiani lo insegna la Croce)
Ci riferiamo in particolar modo all’interpretazione del potere come «ministero», come «servizio», che peraltro avevamo incontrato in nuce già nell’insegnamento di Paolo VI e, poi, nell’impalcatura 'agostiniana' della Caritas in veritate di Benedetto XVI. Del resto Jorge Mario Bergoglio non è nuovo a simili riflessioni: il 7 agosto 2005 aveva approfondito questo tema nel corso dell’omelia pronunciata in occasione della festa di san Gaetano, il patrono del lavoro della Chiesa argentina. L’allora cardinale di Buenos Aires leggeva la concezione cristiana del potere come elemento fondamentale di una spiritualità della Croce e di una teologia dell’incarnazione che ci rivelano il senso autentico della missione di Cristo e di quella della Chiesa nei secoli a venire. Per dirla con Boylan, il «tremendo amore» di Dio verso gli uomini si palesa in un gesto che aveva lasciato attoniti anche gli stessi Apostoli per la sua radicalità (e semplicità): la lavanda dei piedi. Come è possibile, si chiedeva allora Pietro, che il Re dell’universo si faccia servo dei suoi stessi servi? Qual è la forza inaudita che rovescia la nostra mentalità e scandalizza la nostra limitata razionalità, che in tema di potere il più delle volte sembra concepire solo una dialettica fra comando e ubbidienza?
Il paradosso della libertà e della autentica liberazione cristiana è tutto in questo gesto. Quanto lontano è tutto ciò dalla nostra comune accezione del potere! Per giunta questo scarto, continuava Bergoglio, è ancora più evidente nel gesto speculare alla lavanda dei piedi: quello di Pilato che si lava le mani usando del suo potere per ignorare la verità e avallare la menzogna, in una arroganza meschina e incapace di comprendere la stessa direzione della storia. «Con questo gesto – afferma Bergoglio – egli è entrato per sempre nella storia del ridicolo. E ogni volta che deteniamo un potere e ci laviamo le mani dando la colpa ad altri – ai figli, ai padri, al prossimo, a chi ci ha preceduto, alla situazione mondiale, alla realtà, alle strutture, o a qualsiasi altra cosa – anche della più piccola sofferenza patita dai nostri fratelli, ci poniamo dalla parte di Pilato: andiamo a ingrossare la patetica schiera di quanti usano il potere per il proprio profitto e per il proprio prestigio». In questa prospettiva il potere viene ridotto a 'politica', a mera composizione degli interessi, al comando di chi (persona o istituzione) si ritiene sovrano assoluto, ossia sciolto da qualsiasi riferimento e responsabilità verso il destino degli altri. Quando, invece, è proprio il prossimo il termine ultimo e la causa prima di ogni azione autenticamente umana, come ebbe a riconoscere persino Kant.
C’è n’è abbastanza per invitarci a ripensare la nostra immagine del potere. In che direzione? In quella segnata da papa Francesco: «Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio e che anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce». Il potere in quanto servizio rimanda all’idea di 'azione di governo' come 'amministrazione', piuttosto che come imperium . Con ciò assumendo non più la prospettiva monistica del government , ma quella aperta e poliarchica della governance, che in una sostanziale continuità abbraccia manifestazioni storiche pur in sé differenti, quali la Res publica degli antichi Romani, l’Administration del liberalismo anglosassone fino a ciò che Sturzo definiva «potere e amministrazione del bene comune».
In definitiva, il vescovo di Roma ci invita a vivere la categoria teologica della Croce come attributo del potere, una dimensione che necessita di essere implementata anche politicamente. A tal proposito, crediamo che subsidium e 'servizio' siano appunto le espressioni più prossime alla nozione di 'amministrazione', capaci di desacralizzare definitivamente la nozione di potere politico, e con essa rigettare tutte le sue pretese onnivore che hanno funestato la storia recente dell’Europa, per riconsegnarcelo tanto rafforzato rispetto all’effettiva e unica ragione per la quale si esercita, la soluzione di problemi, quanto limitato e bilanciato dal realismo della creaturalità, ovvero dal pluralismo delle conoscenze, delle competenze e delle funzioni.