Analisi. Il piano Marshall per l'Africa non è (solo) questione di soldi
Alla base, vi è la consapevolezza che ridurre dell’80% gli sbarchi non basta. Che i migranti bisogna aiutarli (anche) a casa loro. Che è stato sempre detto. Che (quasi) mai è stato fatto. Oggi tutti parlano di 'piano Marshall per l’Africa': i politici – l’ultimo è stato il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani – e le Ong. Concordano sul fatto che lo squilibrio demografico tra il Vecchio Mondo e il continente africano non si risolverà tanto in fretta. Nel 1960, l’Africa rappresentava il 7% della popolazione mondiale e nel 2030 arriverà al 17, mentre l’Europa passerà, nello stesso intervallo di tempo, dal 20 al 9. Numeri che sono vite e fenomeni che richiedono tempo: i più ottimisti stimano che serva almeno un decennio di investimenti prima di registrare un impatto sui flussi migratori.
«Non illudiamoci neanche che basti veder nascere qualche azienda sul suolo africano per innescare il benessere e un decremento demografico sul modello dell’Occidente» sottolinea Giampaolo Silvestri. Il segretario generale dell’Avsi, una delle Ong più attive in Africa, al piano Marshall ci crede; ne ha dettagliato le ricadute al ministro Moavero Milanesi. Sostiene da anni la stessa idea Gianfranco Cattai, presidente di Focsiv, federazione di 84 realtà impegnate in oltre ottanta paesi impoveriti nel mondo, Africa compresa. Ma sottolinea: «Non basteranno neanche i soldi, tutte le politiche dovranno muoversi nella stessa direzione, secondo una logica di coerenza; se li aiutiamo ma poi deprediamo le loro miniere o la loro agricoltura il risultato finale non cambia». Ancor più guardingo don Angelo Romano, dell’ufficio Relazioni internazionali della Comunità di S.Egidio, presente in una trentina di paesi africani, tra cui Mozambico, Costa d’Avorio, Camerun, Malawi, Guinea Conakry: «Speriamo che il piano Marshall non sia un nuovo slogan; se davvero si vuole ripensare la cooperazione in questa chiave chi l’ha criticata e distrutta nei decenni scorsi dovrebbe fare un minimo di autocritica. Eppoi, che senso ha parlare di Africa come se fosse un tutt’uno?».
Fatto sta che non si solleva neanche un pollice verso. La rotta non è soltanto segnata; è già aperta, e duole dirlo, dalla Cina. Mentre l’Europa non riesce a decidere se e come stanziare 50 miliardi di euro in aiuti, Pechino ha già staccato un assegno da 60 miliardi di dollari. In Italia, del resto, la questione è ancora politica. Paradossalmente, il governo 'nemico' dei migranti, che ha iniziato con le invettive («ciapa su ’l camel... ») per finire con il blocco dei porti, potrebbe trovarsi a rilanciare la macchina degli aiuti. Ci si attende infatti che in questa legislatura vada a regime l’Agenzia per la cooperazione e cambi approccio la Cassa Depositi e Prestiti. Prima però, osserva don Romano, si deve uscire dall’empasse dello scontro sui migranti: «Posto che il nostro Paese, ma potrei dire l’intera Europa, non si è mai preoccupato di instaurare un canale di immigrazione legale, tant’è che un senegalese che volesse venire a cercare lavoro in Italia non potrebbe mai farlo legalmente – gli Usa almeno hanno un sistema di lotteria... – servirebbe un’intesa bipartisan che creasse un clima costruttivo verso i nostri vicini di casa».
Le risorse per cambiare passo ci sono. «L’Italia stanzia quasi 5 miliardi – osserva Silvestri – e poiché un miliardo e mezzo veniva assorbito dagli sbarchi, la riduzione dell’80% di questi ultimi libera quasi un miliardo». Romano auspica che questi soldi «diventino infrastrutture fondamentali, scuole e acquedotti e non si perdano nei mille rivoli della finanza» e Cattai fissa una pregiudiziale: «Non si finanzi il progetto o la singola azienda europea ma il partenariato tra imprese europee e imprese locali: sarà necessaria una struttura per accompagnare e monitorare i progetti ma non si può fare altrimenti se non si vuole veder disperdere le risorse». Il vero tesoretto sono i fondi della Unione Europea: «Con la trasformazione della Cassa Depositi e Prestiti in Banca di sviluppo e il rafforzamento dell’Agenzia della Cooperazione, che tra poco avrà un nuovo direttore – commenta il segretario dell’Avsi – potremo accedere alle risorse europee ed esercitare una regia». In questa partita il pedigree coloniale conta, e parecchio. L’Italia è il partner preferito dagli africani «e infatti i nostri progetti di cooperazione registrano performances superiori a quelle di altri Paesi europei», osserva l’Avsi che è presente in Kenya, Mozambico, Uganda, Nigeria e Costa d’Avorio, tutti candidati al piano Marshall.
Secondo alcuni istituti di ricerca africani, i mercati che hanno attratto i maggiori investimenti nel 2016 sono Egitto, Etiopia, Kenya, Tanzania e Marocco; a livello di ranking, dopo Egitto, Sud Africa e Marocco spuntano Etiopia, Ghana, Kenya e Tanzania. Restano tagliati esclusi dal gioco i teatri di guerra, dove pure i volontari lavorano intensamente, come Congo e Sud Sudan. «La prospettiva di un piano Marshall credibile, infatti, non può essere limitata ai finanziamenti a fondo perduto: dobbiamo puntare a integrare tutte le energie, a partire dal settore privato» spiega Silvestri. Molto dipenderà, dunque, dalla nuova Agenzia per la cooperazione, «che è figlia dell’inversione di tendenza attuata dagli ultimi governi – osserva don Romano – e sperabilmente continuerà sulla rotta tracciata, ricostruendo ciò che, in un eccesso di rottamazione, è stato smantellato senza distinguere tra cooperazione buona e cattiva». Secondo la Focsiv è importante «non ripercorrere orme sbagliate: ad esempio, le Ong non hanno mai subito l’imposizione dei governi africani di far transitare i finanziamenti dalle loro banche di Stato, una prassi seguita invece dalle istituzioni italiane ed europee...» ricorda Cattai.
Avsi spera che il ministro dell’Interno – che non ha alcuna competenza sulla cooperazione ma è il più interessato ad alleggerire in modo strutturale il flusso migratorio – divenga il primo sostenitore di un piano Marshall a guida italiana. Don Romano commenta così: «È necessario adottare parole sobrie e progetti concreti che possano incontrare il massimo consenso possibile, non solo all’interno del mondo politico, ma anche delle realtà ecclesiali, del mondo del volontariato, delle associazioni, direi in generale della società civile e della opinione pubblica, che oggi appare molto allarmata e disorientata». Si discute anche di format: «Gli interlocutori possono essere le pmi perché rappresentano un modello compatibile con il tessuto sociale di quei Paesi, così come, sul piano educativo, il valore della centralità della persona, se declinato in chiave comunitaria, può essere facilmente recepito dalle genti africane, consentendoci di proporre un modello di sviluppo rispettoso dell’uomo e della donna» osserva Silvestri. Il partenariato in Africa «è fatto su misura delle pmi italiane, più che delle grandi aziende – conferma Cattai – anche se, osservando la cooperazione dal punto di vista europeo, per imporre questo format occorre un accordo di non belligeranza con gli altri Stati membri, come la Francia, che ha un sistema imprenditoriale più solido e ramificato».
La presenza italiana in Africa è cresciuta nel tempo, anche se con il nostro 0,29% del Pil restiamo lontani dallo 0,7 degli inglesi, ma «c’è poca informazione sull’evoluzione del mercato africano – osserva Silvestri – eppure in diversi settori, dall’energia all’agroalimentare, si può fare business, producendo con gli africani per gli africani». È tuttavia importante, sottolinea Focsiv, che l’approccio della cooperazione non sia sicuritario e segua una logica di sviluppo autogeno. Tenendo presente che non ogni crescita è sviluppo: «Dobbiamo metterci d’accordo sull’idea di sviluppo per l’Africa. Sicuramente è diverso da quello dei cinesi, tuttavia – osserva Cattai – se dovessimo veicolare il modello italiano così come si presenta oggi, cioè con due terzi delle persone in età attiva che non hanno un lavoro dignitoso, non corrisponderebbe a quello che promettiamo quando parliamo di centralità della persona umana».