Troppi morti sul lavoro. Il peso letale delle omissioni
(Ansa)
Domenica 28 aprile abbiamo celebrato la Giornata mondiale della sicurezza del lavoro, domani festeggeremo la Festa del lavoro. Ricorrenze purtroppo divise tra amarezza e speranza. Nel nostro Paese, infatti, e il lavoro uccide una persona ogni otto ore, e ne ferisce una ogni 50 secondi. Le campane suonano sempre a morto, e per una democrazia «fondata sul lavoro» non c’è da vantarsene. Nel 2018 i morti sul lavoro in Italia sono aumentati del 10%, ad ogni infortunio la comunità sostiene costi previdenziali, assicurativi, sociali, sanitari, giudiziari, amministrativi che ammontano al 2,6% del Pil. Basterebbe dimezzare questo triste bilancio per ottenere il risultato a cui non sono arrivate le leggi di stabilità e di bilancio degli ultimi anni. A questo si aggiungano i costi, non solo economici, per le imprese e per le famiglie dei lavoratori colpiti.
Puntualmente ad ogni strage sul lavoro si lanciano i soliti slogan "si faccia subito giustizia... ci vogliono più controlli... non accada mai più", ma poi tutto rientra in un trend statistico. A chi si occupa di questi veri e propri crimini di pace, viene sempre obiettato che se si applicassero veramente tutte le norme, le imprese dovrebbero chiudere. Non solo ciò non è vero, ma è vero il contrario: nessuna impresa chiude per eccesso di sicurezza, anzi un’impresa sana è sempre sicura; un’impresa sicura è sempre efficiente. E poi non si deve dimenticare che quando si parla di sicurezza sotto osservazione non è solo l’impresa ma anche la pubblica amministrazione, in primis lo Stato, il più grande datore di lavoro di questo Paese.
Chiunque frequenti un ufficio pubblico, nota immediatamente l’insicurezza del lavoro presso un Comune, un ente pubblico, un Ministero. Undici anni fa, il testo unico sulla sicurezza del lavoro ha ristrutturato la normativa, ma la sua applicazione (benché siano passati ben sei ministri del Lavoro, di tutti gli orientamenti) aspetta ancora vari decreti attuativi. Un corpo normativo di 308 articoli che avremmo dovuto testare dopo qualche anno di applicazione, ma deve ancora decollare e che nel frattempo è stato modificato ben 310 volte. Incongruenze giuridiche, inerzia e iniquità sociali ed economiche in questa materia si fondono tragicamente. Citiamone solo tre.
1) Vi è una particolare disposizione del testo unico che merita di essere verificata: l’art. 13 comma 6 prevede che le somme incamerate dalle Asl per le violazioni alla normativa in materia di sicurezza vengano destinate dalle stesse Regioni alla prevenzione. Non è dato sapere, da nessuna fonte pubblica, ivi compresa la lettura dei bilanci regionali, se (e soprattutto come) le Regioni abbiano rispettato tale destinazione di risorse e cosa abbiano fatto di tali somme di denaro. Si deve considerare comunque che l’attribuzione alle Regioni di tale politica della prevenzione (e questa volta si tratta di 'politica possibile', data la disponibilità di fondi) è sottoposta a 20 diverse politiche di prevenzione, quante sono le Regioni: elemento per lo meno illogico. Inoltre, visto che l’albero si vede dai frutti, non si può negare che se in questi anni i numeri degli infortuni non hanno avuto un calo, questa importante disposizione che 'federalizza' la prevenzione della sicurezza, evidentemente non ha dato buoni risultati.
2) La legge 199 del 2016 di contrasto al caporalato e allo sfruttamento del lavoro, laddove viene applicata (per l’iniziativa di magistratura e forze dell’ordine) svela un Paese in cui quasi ogni azienda controllata ha lavoratori a nero, spesso umiliati da un lavoro totalmente irregolare, per 2-3 euro l’ora. Vuol dire che questo Paese si regge sul lavoro nero (o grigio) cioè sulla 'regolare irregolarità' in frode all’Inps, all’Inail, al fisco, ai diritti e soprattutto alla dignità della persona. Un’economia centrata sull’ipocrisia del rispetto elusivo della legge non è tutelata dalla nostra Costituzione che all’art. 41 vuole che la libertà economica non sia in contrasto con la dignità, la sicurezza, la libertà. Un’impresa di tal fatta è fuori dalla Costituzione, per la quale non è nemmeno un’impresa. È altro.
3) Di questi temi dal 1989 si occupa una Commissione di inchiesta del Parlamento, l’unico organo che costituzionalmente può indagare su questioni sociali e sceverare responsabilità giuridiche, politiche, amministrative. Ma stranamente in questa legislatura, la proposta di legge istitutiva di una Commissione di inchiesta giace in Senato e in un anno non è stata mai messa all’ordine del giorno.
Giorgio La Pira, Aldo Moro, Amintore Fanfani, Palmiro Togliatti, Lelio Basso e Piero Calamandrei, scrivendo gli articoli 1 e 3 della nostra Costituzione si ritrovarono d’accordo, dopo un acceso confronto ideologico, che l’Italia fosse una Repubblica democratica fondata sul lavoro, non come prestazione, ma quale valore sociale che obbliga la Repubblica ad adempiere agli obblighi di rimuovere gli ostacoli che impediscono l’uguaglianza di fatto. Anche l’omissione è responsabilità.
Magistrato presso la Corte di Cassazione, già consulente giuridico della Commissione di inchiesta del Senato sugli infortuni sul lavoro