Ma che razza di politica. Il peso dei concetti e delle scelte
Ma che razza di uomo è un uomo che parla di razza quando parla di uomini? Già nel mio dire "razza" su lui e sulle sue parole (ma che razza di parole) nel senso di tipo, sento il brivido d’una parola sconcia e insanguinata dalla storia se riferita a una diversità biologica o antropologica fra esseri umani. Per gli alunni di anni lontani, c’erano carte geografiche della terra con i colori delle varie razze, bianca nera gialla rossa viola, prima che la Costituzione cacciasse quella parola dai confini dell’eguaglianza nei diritti umani. Appena più tardi l’Unesco affermava l’appartenenza di ogni essere umano all’unica specie (1950), e nel 1978 collegando la catastrofe della guerra mondiale anche «al dogma dell’ineguaglianza delle razze e degli uomini» condannava il razzismo come «contrario ai princìpi morali ed etici dell’umanità».
Oggi non c’è più nessuno che sul piano scientifico accetti la teoria delle razze. Sul piano dell’analisi genetica non ha fondamento. Le differenze che caratterizzano popoli ed etnie sono costrutti socioculturali; e anziché ostacolare l’unità della specie umana sono esse stesse espressione di diritti umani («diritto alla differenza»).
In realtà, la teoria delle razze è servita nella storia a separare, dominare, sterminare. Scorrono sullo sfondo in pochi attimi i secoli dello schiavismo codificato e accettato senza sussulti etici sopra la vita torturata di milioni di esseri «sub-umani»; i secoli del colonialismo sfruttatore dei «selvaggi» e massacratore dei popoli autoctoni; gli anni centrali dell’ultimo secolo di sangue, con la fornace della Shoah a tener pura la razza ariana. Un filo rosso lega tutte le tragedie, ed è il concetto di razza superiore e di razza inferiore, di confronto identitario che cancella la qualità umana di chi è reputato appunto sub-umano, selvaggio, impuro.
Finché perdura questa concezione di valore e di dominio, che espelle gli inferiori o i barbari o i "musi colorati" dalla cerchia della famiglia umana, non basterà aver bandito dai discorsi la parola razza, sostituendola con etnia. Perché l’inimicizia fra le etnie, che pure reciprocamente si includono nella famiglia umana, è identicamente capace di paura e di odio, a rischio di tragedia, come avvenuto nei decenni trascorsi.
Io non penso nemmeno per un attimo che la gente lombarda abbia di questi pensieri. Anzi è la più accogliente d’Italia, ospitando 1,3 milioni di stranieri. Provenienti da un arcobaleno di decine di Paesi diversi. Lavorano, pagano le tasse, mandano i figli a scuola. Alle università di Lombardia sono iscritti quasi un quarto di tutti gli universitari stranieri in Italia. Apprendono la cultura "nostra". E poi non credo neppure che il candidato presidente lombardo Fontana abbia inteso di proposito di seminare odio o disprezzo. No. Paura sì, però, paura cavalcata elettoralmente con fantasmi di «estinzione dell’etnia».
Ma qui, appunto, con l’identità minacciata si insinua la dottrina della purezza etnica e della contaminazione. E non si capisce che la soluzione non è il rifiuto, ma l’integrazione. Farli nostri è il loro divenire nostri. Noi e loro, e ci richiamiamo "noi". Lo slogan che «non possiamo prenderli tutti» non sbianca le parole sbagliate. Lo sappiamo tutti che "tutti non possiamo prenderli" (e del resto, gran parte chiede di migrare altrove). Ma quelli che possiamo prendere prendiamoli con noi. Di una cosa siamo totalmente sicuri, che sono della nostra stessa razza. Umana.