L'albero della vita. Il perdono è benedetta lotta
Una volta riconciliatosi con Laban, Giacobbe ora sa che lo attende l’incontro più difficile, quello col fratello ingannato Esaù. Ma Giacobbe non sapeva che prima di poter rincontrare Esaù, un altro incontro straordinario lo aspettava nel guado dello Yabbòq (un affluente del Giordano). Dopo venti anni di esilio, Giacobbe ha paura di tornare nella terra del fratello. La benedizione rubata venti anni prima lo ha accompagnato durante l’esilio, e teme che Esaù non abbia dimenticato l’inganno. Come primo atto gli annuncia il suo arrivo: «Giacobbe mandò dei suoi messaggeri ad Esaù» (32,4). Ma viene a sapere che il fratello avanzava verso di lui con quattrocento uomini, e «Giacobbe ebbe molta paura e si angosciò» (32,8). Teme Esaù, e in cerca di riconciliazione invia abbondanti doni al fratello, per precedere e preparare il grande incontro: «Duecento capri e venti arieti… dieci tori, venti asine…» (32,15). E poi spera: «Placherò il suo volto mediante il dono che mi precede» (32,21). Pratiche antichissime: le comunità si sono incontrate e rincontrate usando i doni come prime parole. La preparazione dell’incontro tra Giacobbe ed Esaù è allora una delle più antiche storie che ci rivelano il legame profondo che esiste tra il dono e il per-dono. Giacobbe invia doni a Esaù per chiedergli il dono del perdono. Ogni perdono vero non è mai atto unilaterale, ma incontro di doni.
Tra la preparazione dell’incontro con Esaù e l’incontro stesso, lo scrittore sacro pone però una forte discontinuità narrativa: ci conduce in un guado notturno di un fiume, e ci fa vivere uno degli episodi più straordinari della Bibbia, quando Giacobbe, il “benedetto per l’inganno”, diventa il “benedetto per la lotta”. Giacobbe arriva a questo incontro notturno con un bagaglio umano-divino grande, complesso, doloroso. In quel guado, insieme alle greggi, ai beni, alla sua famiglia, Giacobbe porta anche la primogenitura, il piatto di lenticchie, il furto della benedizione, le bugie dette al vecchio padre Isacco (e a JHWH), gli inganni fatti e ricevuti da Laban, dolori che convivono in lui assieme al sogno della “scala” e del paradiso, agli angeli, alla promessa, alla chiamata, all’Alleanza rinnovata. Accompagniamo allora Giacobbe fino allo Yabbòq, e seguiamolo quella notte come fosse la prima volta che leggiamo questo racconto (la prima è la sola feconda lettura della Bibbia), e combattiamo accanto a lui.
«Ora, in quella notte, egli si alzò, prese le sue due mogli, i suoi undici figli e attraversò il guado dello Yabbòq. … Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora» (32,23-25). Un uomo («ish») lo affronta durante il guado. Non sappiamo la ragione di questo che ci viene presentato come un vero e proprio agguato. L’uomo sembra un abitante della notte, che deve lasciare la lotta «allo spuntare dell’aurora». Il combattimento è lungo, e l’uomo misterioso non riesce a prevalere su Giacobbe (la Genesi ci mostra più volte Giacobbe come dotato di una forza straordinaria: cf. 29,10), e per fiaccarlo lo colpisce sotto la cintura, alla «cavità dell’anca», slogandogliela, senza però vincerlo (32,26). L’avversario prega Giacobbe: «Lasciami andare perché spunta l’aurora» (32,27). Ed è a questo punto del dialogo-lotta che Giacobbe torna a essere mendicante di benedizioni: «Non ti lascerò andare finché non mi avrai benedetto» (32,27). Il combattente gli chiede: «Qual è il tuo nome?». «Giacobbe». «Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai prevalso» (32,29). Anche Giacobbe chiede il nome al lottatore e come risposta ottiene la benedizione che gli aveva chiesto: «“Perché mi chiedi il mio nome”? E qui lo benedisse» (32,30). In realtà il nome del lottatore misterioso gli era già stato rivelato: «Perché hai combattuto con Dio e con gli uomini». Il suo avversario era un uomo, ed era Elohim. Giacobbe è stato benedetto e ferito dalla stessa (P)persona. È questa una grande metafora della fede (di quella biblica, non di quella dei venditori di consumi emotivi e psichici), che è esperienza che ci benedice solo ferendoci. Grande icona anche dei rapporti umani veri (l’avversario era anche un uomo), dove la benedizione dell’alterità ci raggiunge quando siamo disposti a esporci alla possibilità della ferita. Ma questa lotta è anche una potente immagine delle relazioni umane nella nostra società di mercato, dentro le imprese e le organizzazioni, dove stiamo perdendo la benedizione dell’altro perché abbiamo paura della sua ferita. E così siamo entrati in una carestia di benedizioni, di felicità.
Ancora zoppicante «Giacobbe alzò gli occhi: ed ecco, vide arrivare Esaù. (…) Si prostrò sette volte a terra». Ma «Esaù gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e così piansero» (33,4). Possiamo fare processi interminabili e vincere mille cause, ma la vera riconciliazione arriva solo quando riusciamo “a piangere insieme”. Chiunque abbia ricevuto un grave torto, soprattutto se da famigliari o da persone amate, sa che quel dolore è troppo più profondo di qualsiasi pena da scontare o risarcimento in denaro: la sola efficace cura per quella ferita è la riconciliazione, è l’abbraccio. Quando non si arriva a “piangere insieme”, gli scarti tra i dolori e i risarcimenti sono troppo grandi, e quelle ferite restano aperte e continuano a sanguinare. Le tante lacrime versate per le uccisioni dei nostri cari, per le ingiustizie profonde subite, per le calunnie, per le benedizioni rubate, possono essere asciugate solo mischiandole in un abbraccio con le lacrime di chi ha fatto cadere le nostre. Lo sappiamo; sappiamo anche che è tutto molto difficile, ma più di tutto sappiamo che non c’è altra via vera per cercare di curare le ferite delle relazioni primarie della nostra vita – i procedimenti penali e civili dovrebbero favorire la possibilità di questi abbracci.
Una domanda – tra mille altre – rimane ancora aperta: perché Dio ha affrontato e combattuto Giacobbe mentre andava verso la ricomposizione della fraternità? Perché si è intro-messo tra Giacobbe e la Sua promessa? In questo combattimento possiamo scoprire una delle leggi più profonde e meno esplorate dell’umano. In un momento decisivo della vita, chi combatte il giusto è la sua giustizia, il fondatore è la sua opera, il carismatico è il suo carisma, il poeta è la sua poesia, l’imprenditore è la sua impresa. E non per una perversione o per una malvagità intrinseca della vita o magari di Dio, ma perché quando chi ha ricevuto una vocazione e ha risposto giunge al culmine morale della propria esistenza, arriva inevitabilmente la “tappa del nome nuovo”. Deve combattere con quella che era stata la prima missione e la propria benedizione, per poterne riceverne, dopo la ferita della lotta, altre più vere. Yabbòq e Jacob sono nomi dal suono ebraico simile, quasi uno anagramma dell’altro. Durante questi combattimenti, il principale avversario-lottatore è proprio la cosa più bella e grande della vita, che dentro non vuole “morire”, e combatte e ferisce: deus contra deum. Ma solo quando si supera questo “guado” si spicca veramente il volo verso l’infinito: Raimondo Massimiliano Kolbe diventa Padre Kolbe, e lo diventa per sempre.
Alla fine del combattimento, «Israele» riceve la benedizione da «Giacobbe», poiché si capisce e si sente che la vita-compito di ieri non era un nemico da combattere, ma un amico che ci abbraccia e ci benedice, e che con quella ferita ci ha aperto un accesso alla parte più profonda e migliore di noi. Fino a quel guado notturno, la benedizione di Giacobbe era quella rubata al fratello. Ora che ha ricevuto una nuova benedizione tutta sua, che gli resterà inscritta per sempre nella carne – secondo una tradizione rabbinica Giacobbe zoppicò per tutto il resto della sua vita – può anche lui benedire Esaù: «Accetta, ti prego, la mia benedizione» (33,11). E il cerchio si chiude. Siamo anche noi, come Giacobbe, mendicanti di benedizioni. Ma oggi rischiamo di perdere la capacità spirituale di capire che grandi benedizioni stanno nascoste dentro le ferite incise nelle carni delle nostre relazioni. «Così Giacobbe arrivò sano e salvo alla città di Sikem, nella terra di Canaan» (33,18).l.bruni@lumsa.it