Contro Donnarumma e inno spagnolo. Il peggior autogol d'Italia è dei falchi fischiatori
Siamo il Paese dei comuni e di Comunardo Niccolai, proclamato – suo malgrado – “re degli autogol”. Una storia vera a metà, perché Niccolai, campione d’Italia con il Cagliari di Manlio Scopigno e Gigi Riva, nonché nazionale vicecampione del mondo a Messico 1970, non è neppure il recordman dell’autodafè del pallone. Ma leggenda popolare lo ha eletto ad autolesionista principe delle difese italiche. E allora siamo tutti Niccolai, soprattutto dopo i fischi che a San Siro, nella notte del record d’imbattibilità azzurra archiviato, sono piovuti sul “traditore” Gigio Donnarumma. Preso di mira dalla Curva Sud milanista che si è sentita abbandonata e tradita per 33 denari di Giuda che, al cambio attuale, valgono più o meno 10 milioni di euro di ingaggio annuo, ovvero i quattrini qatarioti che il convento del Paris Saint Germain passa a Donnarumma. Fischiano il figliol prodigo rossonero anche gli interisti e tutti quei fratellastri d’Italia che, invece di incitare e ringraziare il Gigio “pararigori” che ci ha regalato un gigantesco e insperato titolo europeo nella lotteria di Wembley vinta sugli inglesi, lo contestano e lo additano come vergogna nazionale.
Sul ragazzone ci siamo espressi in tempi non sospetti: è manipolato da un genio del male, uno dei tanti delle perfide e venali procure, che risponde al nome di Mino Raiola. Un ex pizzaiolo – evitare, prego, le battute da pizza connection... – che gioca a porta libera con Donnarumma e i suoi altri assistiti, tanti, giovani e forti, quando si presenta a proporre un nuovo faraonico, irrinunciabile contratto. È così che è stato schiantato l’idealismo romantico delle belle bandiere. I Totti, i Maldini, i Del Piero, calciatori da una vita e una maglia, ne nascono ormai uno ogni trent’anni e questa dei millennials (Donnarumma è un classe ’99) è la generazione che salta. Il calciatore del terzo millennio vive nell’era del postmercenariato, va dove lo porta quell’oggetto che sta vicino al cuore, il portafoglio. Donnarumma, come tutti quelli della sua generazione, non deve rendere conto alla famiglia, al presidente del club o all’allenatore che lo ha visto nascere e crescere a Milanello, ma esclusivamente allo stratega del mercato delle vacche grasse che lo piazza al migliore offerente. Siate sinceri, al posto di Gigio fareste lo stesso anche voi, fischiatori del loggione della Scala del calcio. Rifiuterebbe solo chi ha ancora stampato sul petto lo scudetto dell’orgoglio e della dignità. Valori che si son persi nella vita di tutti i giorni, figurarsi nell’universo dei ricchi e famosi pallonari.
Però, cari falchi fischiatori, nessuno di voi ha contestato e inveito contro Donnarumma quando invece di presentarsi all’esame di maturità se ne andò in vacanza a Ibiza. Da maturando, allora il messaggio che mandò ai giovani fu: il pezzo di carta non serve a niente, tanto guadagno in un anno quello che un operaio non accumulerebbe in dieci vite. Nessuno dal fronte proletario della Curva Sud mi pare che si sia indignato per quell’uscita a vuoto del Gigione. Ora invece il suo voltafaccia alla casa madre Milan merita il massimo della pena, l’ostracismo dei cuori patriottici, di chi si sente un italiano vero solo quando giocano gli azzurri di Mancini. E poi, dopo aver fatto campagne vibranti contro gli inglesi non più maestri di fairplay che fischiano l’inno di Mameli e rifiutano l’euromedaglia d’argento, proprio noi, cioè voi, fischiatori di San Siro: fischiamo l’inno spagnolo? Antisportività, si chiama. Ma se vogliamo dirla tutta, ricordatevi che fischiare contro la Nazionale è di cattivo auspicio sin dai Mondiali del ’90. Quella notte della semifinale Italia-Argentina al San Paolo, i napoletani fischiavano gli azzurri di Azeglio Vicini e inneggiavano a santaMaradona che conquistò la finale. Pagammo con il gol di Caniggia e poi ai rigori con l’eliminazione.
Non Niccolai, insomma, ma troppi di noi gareggiano e primeggiano nel centrare la porta sbagliata, da sempre e per sempre votati all’arte dell’autogol.