L'Italia e il gap uomo-donna. Il Patto che manca
E anche quest’anno l’8 marzo è passato, con il suo sciopero. Ma i problemi delle donne rimangono. L’obiettivo numero 5 dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile prevede il raggiungimento dell’uguaglianza di genere, ponendo fine a ogni discriminazione nei confronti delle donne. Mentre aspettiamo pazientemente il 2030, intanto nel mondo e anche in Italia sta velocemente cambiando la cultura. Sebbene le discriminazioni nei confronti delle donne continuino a esserci, la reazione dell’opinione pubblica è sempre più forte. Dire maschilismo è sinonimo di barbarie.
La pratica, però, non tiene il passo della cultura: sembra che alle dichiarazioni di intenti e alle prese di coscienza, non seguano gesti concreti, cambiamenti effettivi. I dati sono impietosi: il rapporto 2017 sul cosiddetto "Gender Gap" del World Economic Forum colloca l’Italia all’82° posto su 144 Paesi, in base a un indicatore che misura il divario uomo-donna in ambito economico, politico, nel campo della salute e dell’istruzione. E siamo il 126° Paese per disparità di retribuzione a parità di mansioni lavorative svolte. Non più roseo è l’ultimo rapporto Oil del 7 marzo, che sottolinea come in gran parte del mondo le donne hanno meno possibilità di partecipazione al mercato del lavoro: ogni 10 lavoratori ci sono solo 6 lavoratrici. E che dire delle circa 30.000 dimissioni volontarie in Italia da parte delle donne che hanno lasciato il lavoro a seguito della maternità?
Anche a livello politico la rappresentanza femminile continua a rimanere insufficiente: nel sopracitato rapporto sul "Gender Gap" la rappresentatività politica femminile a livello mondiale è al 23%, dove il 100% rappresenterebbe la parità. E su questo indicatore l’Italia, prima delle elezioni, è al 44° posto (sempre su 144 Paesi). La recente tornata elettorale ha lievemente migliorato il trend che era iniziato nel 2013, sebbene il dato non sia ancora definitivo: le donne in Parlamento saranno poco più di un terzo del totale, forse in leggero aumento rispetto all’ultima legislatura. La nuova legge prevede che almeno il 40% delle candidature debbano essere di donne, ma nelle posizioni più sicure sono stati inseriti più candidati uomini e nei listini la presenza delle (stesse) donne in più collegi favorisce il recupero e l’elezione degli uomini.
Di tale aspetto del voto nei dibattiti di questi giorni si parla troppo poco. Non avere ancora sufficienti donne nella sfera pubblica è un grave danno per le donne e per tutti. Perché dove le donne possono esprimersi e apportare il loro servizio qualificato è tutto l’umano che sta meglio. Era ed è impressionante assistere in questi giorni a uno spettacolo mediatico con protagonisti quasi esclusivamente maschili. Irrilevante la presenza delle donne nei direttivi dei partiti, anche di quelli che si presentano come di grande innovazione: saranno innovativi per altre cose, ma per l’assenza delle donne sono molto, troppo simili ai partiti del Novecento.
Il quasi monopolio maschile porta con sé le sue tipiche caratteristiche relazionali che le scienze comportamentali mettono sempre più in luce: grande peso alla competizione e poco alla cooperazione, individualismo, logica strumentale, linguaggio aggressivo, tendenza a occupare spazi, maggiore propensione a corrompere e a essere corrotti. Possiamo annunciare e promettere tutti i cambiamenti possibili e immaginabili, ma se la politica dei maschi non darà maggiore spazio alle donne resteremo sempre ancorati al secondo millennio. È la dimensione femminile la vera risorsa scarsa della politica e dell’economia, e quindi una risorsa di grande valore.
Le donne non amano occupare spazi o lottare per il potere, e sempre le scienze comportamentali ci dicono che quando la competizione si fa più dura preferiscono starne fuori, soprattutto se occupare posti di responsabilità significa essere costantemente oltraggiate e sotto assedio mediatico, per il solo fatto di essere donne. Ma proprio per questo c’è bisogno di un nuovo patto sociale tra persone, uomini e donne, di pari dignità, e soprattutto abbiamo bisogno di uomini lungimiranti che sappiano aiutare a creare le condizioni perché un maggior numero di donne possa popolare la sfera pubblica.
E popolarla non omologandosi ma potendo dare il proprio originale apporto. E allora, forse, potrebbero cambiare anche le forme di protesta per le discriminazioni nei confronti delle donne. Ieri abbiamo vissuto uno sciopero fatto in nome delle donne, ma con strumenti e linguaggi molto tradizionali e molto maschili. Le donne, forse perché si occupano concretamente dei figli che vanno a scuola e perché usano di più i mezzi pubblici, sanno che uno sciopero dei mezzi non è capace di dire le cose che le donne vorrebbero dire nel giorno delle donne. Sono certa che se avessimo fatto un esercizio di democrazia deliberativa e, come donne, avessimo deciso in centinaia di migliaia, in milioni, come protestare e fare sentire la nostra voce l’8 marzo, avremmo trovato nuovi linguaggi. I tempi delle donne sono diverse, le mamme lo sanno bene.
E quindi le modalità di esprimere la partecipazione democratica sono diverse. Magari avremmo fatto come le poche 'madri costituenti' che il giorno in cui fu approvato l’articolo 11 della Costituzione, scesero al centro dell’aula, si presero tutte per mano: senza parole, a dire il dolore infinito delle donne in tutte le guerre del mondo. O come Rosa Park, e i suoi concittadini di Montgomery che per due anni non presero più bus razzisti e andarono a lavoro a piedi. Chissà. Ma se volete saperlo, fratelli e amici maschi, dovete solo darci più tempo, e aiutarci ad avviare processi virtuosi.