Dopo il voto del popolo olandese/1. I paradossi di un verdetto
Il voto olandese ci conferma come la storia umana sia ricca di paradossi: a guidare la "quinta colonna" che ha consentito ai liberali del Vvd di Mark Rutte di contenere l’urto dei populisti islamofobi e antieuropeisti di Geert Wilders relegandoli al 13% dei consensi, che promette di tenerli ben lontani (e forse per sempre) da ogni maggioranza di governo, è stato un leader islamico come Recep Tayyp Erdogan.
Proprio il focoso presidente turco, che prefigura niente meno che una nuova "guerra di religione" nel cuore d’Europa, si è rivelato l’alleato più prezioso per un’Olanda che sembrava aver smarrito definitivamente la propria identità e che fino a pochi giorni dal voto assegnava al movimento xenofobo che predica la chiusura delle moschee e l’uscita dall’Europa concrete possibilità di sorpasso sui liberali. Ma il duro contrasto con Ankara sfociato in una seria crisi politico-diplomatica, la fermezza (pur non esente da errori) del premier Rutte nella difesa dell’identità e della legalità nazionale, la fede quasi miracolosamente ritrovata in quel connubio fra tolleranza e intransigenza che nel Cinquecento fece la grandezza delle Sette Provincie Unite e ne preservò per secoli l’integrità territoriale, garantendone nel contempo la fortuna economica e commerciale, hanno permesso al partito di maggioranza relativa di prevalere grazie alla saggezza della breede middenstand (letteralmente: l’ampia classe media), che nonostante tutto è ancora l’abitante principale della geografia morale olandese.
Ad arginare l’onda populista di Wilders ha contribuito anche l’inaspettata fiammata di consenso dei verdi del Groenlinks, che hanno letteralmente quadruplicato i voti, così come il recupero dei cristiano democratici e dei liberali progressisti.
Ma non è tempo di giubilo all’Aja. L’Olanda, che esce da una crisi che non ha risparmiato nessun Paese ed è in buona parte all’origine del grande malcontento europeo che ha dato linfa e argomenti al populismo, ha ancora molti problemi da risolvere nonostante quel 2% netto di crescita, quella disoccupazione sotto il 6% e quel virtuosissimo debito pubblico così vicino al 60% come prescritto dal Patto di stabilità e crescita: parametri che hanno troppe volte indotto gli olandesi a comportarsi come la mosca cocchiera d’Europa, titolare di una rettitudine nei conti pubblici pari solo all’intransigenza con cui reclamavano – di concerto con la Germania – il medesimo rigore per quei Paesi membri (pensiamo ai famigerati 'Pigs': Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna – ma la 'i' per molti alludeva anche all’Italia) il cui risanamento viaggiava a ritmi più lenti. Ma i conti in ordine dell’Aja non sono bastati a eliminare le diseguaglianze e le tensioni che si insinuavano nel tessuto sociale dei Paesi Bassi. Su queste contraddizioni ha prosperato il populismo xenofobo di Wilders, esattamente come – e obbiettivamente non senza alcune ragioni – ha fatto proseliti l’antieuropeismo xenofobo di Marine Le Pen e quello solo apparentemente più mite che ha portato il Regno Unito a uscire dall’Europa.
La diga tuttavia – l’allegoria in un Paese che ha strappato la terra al mare è quasi scontata – ha retto, come aveva retto in Austria. Il populismo radicale del Pvv si è fermato ai confini di un consenso che non va sottovalutato, ma che non ha alcun futuro. Viceversa è il volto ritrovato di un Paese che ha compiuto un significativo salto in avanti a confortarci: l’esito elettorale di mercoledì rappresenta un segnale chiarissimo e un messaggio all’Europa, tanto più significativo in quanto cade in prossimità delle celebrazioni del sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma. Il messaggio è limpido: l’Unione Europea deve saper rispondere con urgenza a quelle tre grandi domande che lasciate senza risposte adeguate rischiano ogni volta di mutare il proprio volto trasformandosi in tre minacce: la sicurezza, l’economia, la crisi sociale. Potremmo chiamarla senza retorica, la ricerca di un’identità e un’equità europea, finora sfuggita fra egoismi nazionali, timori di lasciare in ostaggio troppe quote di sovranità, minuscoli quanto cinici calcoli di bottega. La febbre del populismo da ieri è significativamente calata. Il malessere tuttavia rimane, perché il rigore che si fa rigorismo tiene in ordine i conti, non il presente e il futuro di un popolo. Questo è l’altro paradosso con cui fare i conti. Così la cura, quella vera, ancora non s’inizia. L’Olanda ha dato un segnale forte. C’è da sperare solo che l’Europa sappia coglierlo appieno.