Migrazioni. Il paradosso del muro. Scardinarlo è il primo passo
«Chi costruisce un muro – sostiene papa Francesco -, finirà schiavo dentro i muri che ha costruito». quanto sembra essere accaduto alla politica migratoria su entrambe le rive dell’Atlantico. Gli Usa in questo sono un caso scolastico. Sono stati i primi a edificare, nel 1990, una barriera fisica per arrestare l’avanzare dei profughi dal Sud. Appena 12 chilometri che nei successivi trentatré anni sono diventati mille. Nel 1996 è stata eretta la “valla” (palizzata) di Ceuta, pioniera in Europa: attualmente è una triplice rete di filo spinato che separa l’enclave spagnola dal resto del Marocco. Da allora è stato un moltiplicarsi dei muri parallelo all’incremento degli spostamenti forzati di popolazione. Segno che le barriere non fermano le migrazioni causate dal dilagare dei conflitti, dall’acuirsi dell’ingiustizia strutturale, dell’impatto violento del riscaldamento globale sulle economie di sussistenza. Semplicemente le cristallizzano in un monotono susseguirsi di emergenze quando i fattori di espulsione raggiungono intensità intollerabili. Cutro, con il suo carico di disperazione, dall’Afghanistan alla Tunisia, docet.
Ancora più, però, forse, è l’esempio statunitense, meno vicino alle nostre passioni, a restituirci in tutta la sua assurdità il paradosso del muro. A mezzanotte di giovedì è caduto un frammento della barriera legale alzata da Donald Trump: dopo quaranta mesi e due rinnovi giudiziari, è scaduta la norma – il “Titolo 42”, emanato sull’onda della pandemia – che impediva, per ragioni sanitarie, di chiedere asilo ai nuovi arrivati da Centro e Sud America ma anche da Africa, Medio Oriente e Asia. In vista dell’estinzione, da mesi, i Repubblicani tuonano “all’invasione”. A dodici ore dal termine, la maggioranza conservatrice alla Camera ha dato il via libera alla ripresa della costruzione del muro, momentaneamente interrotta con l’addio di Trump alla Casa Bianca. Il testo non ha possibilità di passare in un Senato a egemonia democratica ma non importa. La barriera per fermare “il nemico alle porte” è un’arma elettorale potente. A cui il presidente e aspirante candidato nel 2024, Joe Biden, ne ha opposto un’altra, di tipo normativo e immeditatamente operativa.
Dal Titolo 42 si è tornati al “Titolo 8” che ha consentito al democratico Barack Obama di rimpatriare oltre tre milioni di persone in otto anni. Ma con ulteriori restrizioni. La non ammissibilità allo status di rifugiato è presunta a meno che il richiedente non dimostri in modo inequivocabile il contrario, non abbia preso un appuntamento in patria tramite l’apposita App e non abbia presentato istanza e ricevuto un diniego dai Paesi attraversati nel viaggio verso gli Usa. La Casa Bianca ha attenuato il pugno di ferro con la concessione di 30mila permessi umanitari al mese per haitiani, venezuelani e nicaraguensi, un ampliamento dei requisiti per i ricongiungimenti familiari e l’apertura di centri per fare richiesta direttamente in Colombia e Guatemala. Come un effetto domino, il Messico, nel frattempo, ha stoppato la concessione di autorizzazioni ai migranti per raggiungere la frontiera e ha accettato di ricevere gli espulsi di altre nazioni. Inimicarsi il potente vicino del Nord non conviene al populista di sinistra Andrés Manuel López Obrador come non conveniva al liberale Enrique Peña Nieto.
Indifferenti alle regole della politica e alle leggi fatte a misura di quest’ultima, i profughi continuano a fuggire alla ricerca del luogo più raggiungibile dove poter vivere almeno un po’ meno indegnamente.
Per i latinoamericani sono gli Stati Uniti, per gli africani e i mediorientali è l’Europa.
Contrariamente a certa propaganda, non hanno propositi colonizzatori. Scappano, al contrario, proprio dai frutti avvelenati delle colonizzazioni vecchie e nuove. Vogliono solo vivere e soprattutto far vivere quanti hanno lasciato indietro con l’invio delle rimesse. Briciole, il più delle volte, che in patria, però, fanno la differenza tra analfabetismo e istruzione, tra assistenza e abbandono, tra mendicare e avere una baracca.
Per questo non li aveva fermati il blocco di Trump, semplicemente aveva “esternalizzato” il problema al Messico, dove in centinaia di migliaia sono rimasti in attesa di una chance per passare dall’altra parte. E là li condanna ad aspettare ancora il nuovo muro di Biden, Che fare, allora, di fronte un fenomeno strutturale acuito dalle crisi contemporanee? Scardinare il paradosso del muro è il primo passo. Il secondo è creare canali legali e sicuri di migrazione mentre si lavora per risolvere o almeno non aggravare le cause profonde dell’attuale esodo. Senza questo “aiutarli a casa loro” è solo uno slogan deresponsabilizzante.
Che il partire possa davvero tornare a una libera scelta di vita e non un’opzione tra morte in vita e morte mentre si cerca di vivere.