Immigrazione oltre l’emergenza. Il paradigma di Youlsa
Tra pochi giorni sarà festa grande a Neguena, piccolo villaggio nel cuore del Mali. Il 2 ottobre verrà inaugurata “la scuola che non c’era e adesso c’è” e sessanta bambini cominceranno a frequentarla. È l’epilogo di una storia afroitaliana che merita di essere raccontata per la sua emblematicità. Quando Youlsa Tangarà aveva sei anni era l’unico studente del villaggio, gli altri bambini andavano a lavorare nei campi, a pascolare animali o a cercare polvere d’oro nei fiumi per dare una mano alle famiglie. Lui no, perché suo padre credeva fortemente nell’istruzione e voleva dargli un futuro diverso da quello dei coetanei. Ma a Neguena non c’era la scuola, e così Youlsa percorreva
tutti i giorni otto chilometri a piedi sotto il sole dell’Equatore per andare e tornare dalla scuola nel villaggio vicino. Era contento e prometteva bene, perciò il padre decise di fargli continuare gli studi nella capitale, Bamako, fino al diploma di ragioneria. Poi le cose si sono maledettamente complicate in Mali: una grave crisi alimentare, la guerriglia interna alimentata dai tuareg e da gruppi jihadisti, il colpo di stato dei militari. proteste di piazza e disordini nei quali anche Youlsa viene coinvolto. Fugge in Costa d’Avorio, poi la lunga marcia verso la Libia e il viaggio nel Mediterraneo, destinazione Italia. A Lampedusa arriva in una notte tempestosa dopo avere visto la morte in faccia ed essere stato salvato da una motovedetta della Guardia Costiera italiana, poi il trasferimento in un centro di accoglienza a Bologna. Il diploma di ragioneria e la conoscenza di inglese e francese diventano i trampolini per trovare lavoro, ma Youlsa non dimentica quello che si è lasciato alle spalle, il suo passato continua a bussare al presente.
Assieme ad altri giovani della diaspora maliana in Italia fonda l’associazione Yérédemeton (“mutuo aiuto”) e dà vita al progetto “Un villaggio una scuola” per offrire ai bambini del suo villaggio l’istruzione e un futuro migliore. Parte una raccolta di fondi che con il sostegno della Caritas e di altre associazioni permette di raccogliere la cifra necessaria per avviare i lavori e comprare banchi e lavagne. Contemporaneamente a Neguena si mobilitano giovani e adulti per raccogliere pietre, scavare, alzare e dipingere muri, attrezzare due aule. E tra pochi giorni Youlsa coronerà il suo sogno: aprire la scuola che non c’era e adesso c’è. Ma lui ne coltiva già un altro: grazie a una collaborazione con la fondazione Meet Human di Bergamo sta acquisendo le competenze necessarie per avviare una scuola di formazione professionale.
Agricoltura, zootecnia, informatica, elettromeccanica: sono i percorsi che verranno proposti ai giovani maliani, un investimento in formazione che diventi fattore di sviluppo locale e alternativa possibile alla migrazione. Lui non ha dubbi: « Il futuro del mio villaggio, come quello di tutta l’Africa, passa dalla scuola. Ho un debito di riconoscenza con la mia famiglia che mi ha permesso di studiare, con l’Italia che mi ha salvato dalla morte in mare, con tanti italiani che insieme ai miei connazionali hanno permesso di costruire la scuola nel mio villaggio. Insieme si può».
C’è bisogno di gente come Youlsa: ne hanno bisogno i bambini del suo villaggio, ne ha bisogno il suo Paese ferito da una guerra civile infinita. E ne ha bisogno l’Italia, per capire che gente come lui è un patrimonio che arricchisce anche il nostro Paese. È lecito sperare che la vicenda di cui è protagonista non rimanga una “bella storia”, ma possa diventare un paradigma a cui guardare e da cui imparare quando si progettano le grandi strategie sulle migrazioni?