Opinioni

All’incontro tra Francesco e gli alunni delle scuole dei Gesuiti. Carica ideale e presa sulla realtà Il Papa rilegge la «lezione» ignaziana

Leonardo Becchetti sabato 8 giugno 2013
Siamo un popolo difficile, di spiriti liberi, di persone educate a trovare la loro singola e irriducibile missione nella vita, difficili da aggregare ed intruppare, ma stavolta ce l’abbiamo fatta a radunarci tutti insieme. Per uno nato e cresciuto in questa grande famiglia il valore di quest’incontro di novemila di noi studenti ed ex studenti delle scuole dei Gesuiti con il Papa è inestimabile e già questo evento mi pare uno dei miracoli che Francesco è riuscito a compiere. Il primo passaggio del Papa è stato sulla «magnanimità incarnata» come caratteristica fondante della spiritualità ignaziana. Avere cuore grande e scommettere su grandi ideali, ma allo stesso tempo prendere sul serio ciò che di più piccolo e quotidiano c’è nella nostra vita. Questo principio è mirabilmente sintetizzato dal detto latino, attribuito ai gesuiti, «non coerceri a maximo sed contineri a minimo divinum est» (ovvero: ciò che è divino è l’avere ideali che non sono limitati neppure da ciò che c’è di più grande, ma ideali che siano allo stesso tempo contenuti e vissuti nelle cose più piccole della vita). È l’abbinamento di carica ideale e presa sulla realtà che stimola quell’inquietudine creativa che ha consentito a tanti uomini e donne formate a questa spiritualità di contribuire al progresso dell’umanità nella scienza, nella cultura e nella promozione della giustizia. Un progresso che ha una sfumatura molto più spirituale dell’attuale concezione scientista e meccanicista. I gesuiti da sempre hanno lanciato la sfida al cuore della modernità. Ad un’idea triste di evoluzione deterministica nella quale non c’è posto per Dio di chi crede di aver capito tutto contraddicendo i principi primi del metodo scientifico – fatto di teorie falsificabili e progressivamente sostituite da migliori – essi contrappongono sì un’evoluzione (un progresso nelle nostre scoperte e capacità di comprensione), ma spirituale, aperta al mistero e capace di contemplare i tanti segni provvidenziali disseminati nella natura e nella storia. Con un ottimismo e una speranza profondi che hanno trovato forse una delle massime espressioni nello scienziato gesuita Teilhard de Chardin che, in un momento di scacco della storia nelle trincee della prima guerra mondiale, osava affermare: «Credo che l’Universo è un’Evoluzione. Credo che l’Evoluzione va verso lo Spirito. Credo che lo Spirito si compie in qualcosa di Personale. Credo che il Personale supremo è il Cristo-Universale»; con una visione ed una lungimiranza che la conclusione di un’enciclica come la Populorum Progressio sembra sposare appieno quando sostiene, rivolta a chi si chiude alla speranza, «Certuni giudicheranno utopistiche siffatte speranze. Potrebbe darsi che il loro realismo pecchi per difetto, e che essi non abbiano percepito il dinamismo d’un mondo che vuol vivere più fraternamente, e che, malgrado le sue ignoranze, i suoi errori, e anche i suoi peccati, le sue ricadute nella barbarie e le sue lunghe divagazioni fuori della via della salvezza, si avvicina lentamente, anche senza rendersene conto, al suo Creatore».Non c’è nulla di deterministico in questa visione perché il Papa, nel solco di questa tradizione, è pienamente consapevole che soltanto le nostre fatiche possono portarci verso questo compimento. Non a caso ha ricordato nell’udienza agli alunni delle scuole dei gesuiti che la persona è oggi schiava delle strutture economiche e che i cristiani non possono comportarsi come Ponzio Pilato, ma devono sporcarsi le mani in politica e nell’impegno di costruzione del bene comune. Per far questo, ha ricordato, non basta parlare dei problemi della povertà ma bisogna avere vissuto l’esperienza dello sguardo della realtà a partire di chi vive quei problemi. La malattia della nostra società di oggi, ha ricordato ancora, è spirituale prima che economica e riguarda la scala dei valori. Accade proprio come nel racconto rabbinico che narra che il degrado morale dei tempi della Torre di Babele dipendesse dal fatto che, nella costruzione della torre, la perdita di una pietra era considerata una tragedia mentre la morte di un operaio che lavorava alla sua costruzione lasciava indifferenti. Ciò fa venire alla mente il parallelo geniale che Francesco ha tracciato qualche giorno fa relativamente ai nostri tempi, constatando che una perdita di vari punti dell’indice di borsa viene vissuta e rappresentata dai media come una tragedia, mentre le morti di fame sono ignorate. Ma il progresso dell’uomo non è possibile senza incarnazione, ovvero senza uomini che cercano di essere ponte tra ideale e reale, tra testimoni sensibili ma spesso senza le conoscenze degli addetti ai lavori e addetti ai lavori competenti ma privi di sensibilità. La missione nella cultura e per la giustizia richiede oggi uomini ponte tra sensibilità e competenze in grado di utilizzare strumenti educativi e comunicativi non convenzionali, nuovi ed adatti al mondo d’oggi. È proprio questa la sfida di sempre della spiritualità ignaziana che da centinaia di anni forma equilibristi che camminano su questo delicato filo, pronti a rialzarsi dopo ogni caduta e ad imparare dai loro piccoli fallimenti, con un piede nella sicurezza delle certezze già acquisite e un altro che si sporge verso l’azzardo del nuovo che ancora deve essere costruito.