Panama. Il Papa coi gesuiti: il Vangelo è politico ma i religiosi non si schierino
Lo scorso 26 gennaio durante la Gmg di Panama, il Papa prima di recarsi al Campo San Juan Pablo II per la grande veglia con i giovani, ha incontrato un gruppo di gesuiti provenienti, oltre che dallo Stato ospitante, da altri Paesi del Centro America. In nunziatura, sede dell’appuntamento, era presente una trentina di religiosi, con cui il Papa ha dialogato per circa un’ora rispondendo ad alcune domande. Il testo integrale del colloquio viene pubblicato sul quaderno numero 4.048 di “La Civiltà Cattolica”. Tra i temi affrontati dal Pontefice, la formazione dei novizi, la vocazione dei fratelli (religiosi non sacerdoti), la cultura dell’incontro, la realtà giovanile. A seguire ampi stralci della conversazione.
Domanda. Vedendo la testimonianza che ha caratterizzato la Compagnia di Gesù nell'America centrale, che cosa pensa che possiamo apportare alla Chiesa universale?
Papa Francesco. In America voi siete stati pionieri negli anni delle lotte sociali cristiane. Siete stati pionieri. Se padre . Arrupe scrisse la Lettera su cristiani e «analisi marxista» per parlare della realtà della teologia della liberazione, è perché c’era qualche gesuita che si confondeva un po’. Non con cattive intenzioni, ma si era confuso, e a quel punto il padre ha dovuto rimettere le cose a posto. Rimetterle a fuoco. Allora chi condannava la teologia della liberazione, condannava tutti i gesuiti del Centroamerica. Ho sentito condanne terribili. E chi la accettava, accettava tutto senza fare distinzioni. In ogni modo, la storia ha aiutato a discernere e a purificare (...). A quei tempi, un giorno presi l’aereo per andare a una riunione. Partivo da Buenos Aires, ma, siccome il biglietto costava meno, feci scalo a Madrid, per poi andare a Roma. A Madrid salì a bordo un vescovo centroamericano (...). Io gli domandai della causa di Romero, e lui mi rispose: «Non se ne parla nemmeno, proprio no. Sarebbe come canonizzare il marxismo». È stato solo il preludio. Ha continuato di questo passo. Anche nell’episcopato c’erano visioni diverse, c’era pure chi condannava la linea della Compagnia. E infatti quel vescovo passò dal criticare Romero a criticare i gesuiti dell’America centrale. Ma non era certo l’unico a pensarla così. All’epoca, alcuni altri membri della gerarchia ecclesiastica erano molto vicini ai regimi di allora, erano molto «inseriti». In una riunione a Roma incontrai un provinciale, uno che veniva accusato di essere di sinistra. Lo interpellai sulla teologia della liberazione, e lui mi fece un panorama molto obiettivo, perfino critico verso alcuni gesuiti, ma mostrandomi qual era la direzione positiva; a chi vedeva tutto questo dal di fuori, invece, tutto sembrava molto, molto difficile da accettare. L’idea era che canonizzare Romero fosse impossibile perché quell’uomo non era neppure cri- stiano, era marxista! E quindi lo attaccavano. In quella tempesta c’erano anche dei semi buoni. Alcuni hanno esagerato, sì, ma poi sono tornati. Ci sono sempre state esagerazioni. Qualcuno le ha dette più grosse di altri, è vero, ma la sostanza era diversa. Voi siete stati nel pieno di quella rivolta. E sarebbe bene che rileggeste la storia di quegli uomini. C’erano persone come Rutilio, che non si è mai sbandato, e ha fatto tutto quello che doveva fare. Dal punto di vista ideologico, egli non si è mai smarrito, e invece c’era qualcun altro che da quelle parti un po’ si smarriva, perché era innamorato della filosofia di un certo autore e su quella base rileggeva e interpretava i fatti. Ma sono cose umane, comprensibili in circostanze difficili. Le dittature che avete avuto voi in Centroamerica erano del terrore. L’importante è non farsi sopraffare dall’ideologia né da un lato né dall’altro, e nemmeno dalla peggiore di tutte, che è l’ideologia asettica. «Non impicciarti»: questa è l’ideologia peggiore. Era l’atteggiamento di quel vescovo incontrato in aereo, che era un asettico. Arrupe su questo era molto chiaro nel discernimento che faceva. Difendeva tutti, ma poi correggeva ciascuno in privato su ciò che doveva correggere, se doveva correggere qualcosa (...). E oggi noi vecchi ridiamo per quanto ci eravamo preoccupati riguardo alla teologia della liberazione. Quello che allora mancava era la comunicazione all’esterno di come le cose stavano per davvero. C’erano molti modi di interpretarla. Certo, alcuni sono scaduti nell’analisi marxista. Ma vi racconto una cosa divertente: il grande perseguitato, Gustavo Gutiérrez, il peruviano, ha concelebrato la Messa con me e con l’allora prefetto della Dottrina della Fede, il card. Müller. Ed è successo perché proprio Müller me lo portò come suo amico. Se qualcuno a quell’epoca avesse detto che un giorno il prefetto della Dottrina della Fede avrebbe portato Gutiérrez a concelebrare con il Papa, lo avrebbero preso per ubriaco. La storia è maestra della vita. Si va imparando(...). Ricorrere alla storia per capire le situazioni. Senza condannare le persone e senza santificarle in anticipo (...).
Ho una domanda sull'inculturazione riguardo ai popoli della nostra America. Ne parlo in prima persona, perché appartengo alla cultura maya. Che cosa pensa di quei preti e vescovi diocesani che cercano di omologare i giovani già dai primi momenti della formazione? In pratica, purtroppo, formare diventa come offuscare, e l’identità viene coperta. Che ne pensa di quei preti che non si sentono più in sintonia con il popolo dal quale sono usciti?
Mia nonna teneva molto alla catechesi. Ci spiegava che nella vita dovevamo essere umili e non dimenticarci che eravamo nati in una famiglia umile. Lei, che era del Nord Italia, ci raccontava di una famiglia che in un paese italiano aveva mandato un figlio a studiare all’università (...). Si trattava di una famiglia di contadini. Il figlio non tornò finché non si laureò (...). E una volta a casa, cominciò a domandare al padre: «Come si chiama quell’attrezzo? E come si chiama quell’altro?». «Questa è la pala, figlio mio». «Ah, la pala. E quell’altro attrezzo come si chiama?». «Il martello ». «Ah, il martello». Era cresciuto là, ma non ricordava niente. «E quest’altro attrezzo come si chiama?». E il padre glielo diceva. C’era anche un rastrello. E il figlio, distrattamente, lo calpestò. Il rastrello ruotò e lo colpì in testa. E lui esclamò: «Accidenti al rastrello!». [ Qui il Papa imita il gesto, provocando l’ilarità generale]. Chi si dimentica della sua cultura ha proprio bisogno di una rastrellata in faccia. È terribile quando la consacrazione a Dio ci rende snob, ci fa salire di categoria sociale verso una che ci sembra più educata della nostra. Ciascuno deve conservare la cultura da cui proviene, perché la santità che vuole raggiungere si deve basare su quella cultura, non su un’altra (...). L’altro giorno padre Lombardi mi diceva che stava lavorando alla causa di beatificazione di Matteo Ricci e mi parlava dell’importanza della sua amicizia con Xu Guangqi, il laico cinese che lo accompagnava e che restò laico e cinese, santificandosi da cinese e non da italiano com’era Ricci. Questo è mantenere la propria cultura. Oggi ho pranzato con i giovani. Venivano da tutte le parti (...). E c’era una ragazza centroamericana, indigena, che aveva voluto truccarsi secondo le sue tradizioni. Una persona «illuminata», vedendola così, avrebbe forse detto con ironia: ecco la «piccola india», tutta pitturata! Ecco, quando la «piccola india» ha parlato, ha dato una bella batosta a quelli che non rispettano la madre terra. Quella ragazza ha parlato, a partire dalla sua cultura, con una tale capacità intellettuale che alla fine, quando quelli della Sala Stampa mi hanno chiesto chi potevano portare per le interviste, ho risposto: portate chi volete, ma lei portatela di sicuro (...). Quella ragazza, militante, cattolica, credo insegnante di professione, non aveva perduto la sua cultura, l’aveva fatta crescere! Quindi, ecco quello che voglio dire: dobbiamo inculturarci fino alla fine (...).
Dopo un’ora di incontro i responsabili del viaggio avvisano il Papa che è tempo di andare. Il Papa dice di fare altre due brevi domande. Ecco la prima: da gesuiti che atteggiamento dobbiamo avere verso la politica?
Oggi a pranzo mi ha fatto la stessa domanda una ragazza del Nicaragua. La dottrina sociale della Chiesa è limpida ed è diventata sempre più esplicita attraverso diversi pontificati. Su questo l’Evangelii gaudium è chiarissima. Inoltre, anche il Vangelo è un’espressione politica, perché tende alla polis, alla società, a ogni persona e alla società, a ogni persona in quanto appartiene alla società. È vero che la parola «politica» è a volte persino disprezzata e intesa soltanto come logica della parte, settarismo politico, con tutto ciò che questo comporta in America Latina quanto a corruzione politica, sicari della politica e via dicendo. L’impegno politico per un religioso non significa militare in un partito politico. È chiaro che bisogna esprimere il proprio voto, ma il compito è quello di stare sopra le parti. Però non come chi se ne lava le mani, bensì come uno che accompagna le parti perché giungano a una maturazione, apportando il punto di vista della dottrina cristiana. In America Latina non sempre c’è stata maturità politica. Approfitto della domanda per citare alcuni problemi che per me hanno rilevanza politica. Il primo è quello della nuova colonizzazione. La colonizzazione non è solo quella che avvenne quando arrivarono gli spagnoli e i portoghesi che presero possesso delle terre. Questa è una colonizzazione fisica. Oggi le colonizzazioni ideologiche e culturali sono di moda, sono quelle che stanno dominando il mondo. In politica voi dovete analizzare bene quali sono oggi le colonizzazioni a cui sono sottoposti i nostri popoli. Il secondo è quello della nostra crudeltà. L’ho detto a un politico europeo, che mi ha risposto: «Padre, l’umanità è sempre stata così, soltanto che ora con i media ce ne accorgiamo di più». Può darsi che abbia ragione. Ma la crudeltà è terribile. Si inventano persino le torture più raffinate, si degrada l’umano. Ci stiamo abituando alla crudeltà. Il terzo riguarda la giustizia ed è la pena senza speranza. Ieri ero felice quando ho lasciato l’Istituto dei minori, perché ho visto tutto il lavoro che fanno lì per ricostruire la vita di persone, ragazzi, ragazze molto degradati dai delitti, per reinserirli. Ma la cultura della giustizia aperta alla speranza non è ancora ben radicata.