Non come in fuga. Il Papa e il vero tempo del riposo
Certe domeniche d’estate, quando le autostrade verso il mare sono colonne di auto sotto al sole, e i parchi di divertimento traboccano di una folla accalcata e accaldata, e l’ordine tacito è mangiare, bere, divertirsi più che si può, in quelle domeniche il pensiero può cadere sul "riposo" comandato, per il Settimo giorno, dal Decalogo. O, anche, nella quiete triste delle domeniche delle grandi città, quando restano in giro solo i vecchi e non si sente la voce di un bambino, il giorno del riposo sembra piuttosto un tempo vuoto, in cui immalinconirsi in bilanci amari, o accendere una tv per non pensare. Sono difficili, le domeniche della modernità, che magari cominciano già psicologicamente nell’happy hour del venerdì, l’«ora felice» per bere un aperitivo e buttarsi indietro la settimana, sottintendendo: adesso, finalmente, si vive. Spaesate domeniche, come se noi si sapesse più esattamente cos’è, quel riposo comandato nel libro dell’Esodo.
Il Papa nella Catechesi di ieri è tornato a spiegare il senso del riposo del Settimo giorno. Perché, ha detto, «c’è un riposo falso e un riposo vero». Il riposo vero è quello a imitazione di Dio evocato nella Genesi: «Dio vide quanto aveva fatto, ed era cosa molto buona». Il Settimo giorno, dunque, è quello della gioia di Dio per quanto ha creato: «È il giorno della contemplazione e della benedizione». Non è un tempo dato per fuggire dalla realtà quotidiana, per "evadere" da quella settimana che sarebbe, dunque, una prigione. «Al riposo come fuga dalla realtà, il decalogo oppone il riposo come benedizione della realtà», ha spiegato Francesco: «La domenica non è il giorno per cancellare gli altri giorni, ma per ricordarli, benedirli e fare pace con la vita». Per guardarsi indietro e ringraziare Dio di ciò che ci ha dato.
Ringraziare? potrebbero obiettare molti. Ringraziare magari di solitudine, povertà, malattia, dolore? È proprio questo il passaggio cui il Papa ha chiamato ieri. Ha detto che gli uomini devono «allontanarsi delle pieghe amare del loro cuore», e riappacificarsi con ciò da cui fuggono. Devono riconciliarsi con la loro storia, con ciò che non si accetta, con le parti del proprio passato che ancora fanno male. Accogliere la propria storia, valorizzarla esattamente «così come è andata», ha detto Francesco, questo è il luogo della vera pace interiore. È una pace che si sceglie, ha aggiunto, e non si trova per caso.
Quanti di noi passano la vita a recriminare per il male subito, o magari a tormentarsi per quello fatto, o a non perdonarsi della propria pochezza, inettitudine, fragilità? In tanti, pure cristiani, ci riteniamo protagonisti di vite che andrebbero corrette, o censurate, o riscritte. Qualcosa di "sbagliato", del resto, lo si trova quasi sempre. Ma ciò che ci è stato detto ieri è il contrario: dobbiamo accogliere la nostra vita, proprio così come è andata. Nel male sopportato, che, perdonato, si fa luogo di grazia. Nel male fatto da noi che, nel perdono di Dio, è diventato – e molte storie di santi lo dimostrano – terra di misericordia. C’è una tendenza degli uomini a rivoltarsi nelle piaghe della propria infelicità. C’è un come istintivo rinserrarsi in un ostinato, a volte disperato "no". La nostra vita cambia invece, testimonia il Papa, in un’accettazione che è il fiat di Maria, un affidarsi pienamente a Dio, a Cristo.
Quando diventa bella la vita? si è domandato Francesco, e ha risposto: «Quando si inizia a pensare bene di essa, qualunque sia la nostra storia. Quando si fa strada il dono di un dubbio: quello che tutto sia grazia, e quel santo pensiero sgretola il muro interiore dell’insoddisfazione, inaugurando il riposo autentico».
«Tutto è grazia» è la verità cui faticosamente giunge il Curato di campagna di Bernanos nel "Diario", è ciò che diceva santa Teresa di Lisieux. Tutto, ma proprio tutto della nostra storia, è grazia? Così ci assicura il Papa. (Che sia per questo forse che il tempo dato all’uomo è spesso così lungo, mentre gli animali non sopravvivono di molto alla fine dell’età feconda e alla improduttività per il branco?) Un tempo lungo per noi, un tempo paziente, benigno, perché impariamo a dire grazie. Grazie di ogni giorno, e di ogni ora. La pace e il vero riposo, che così cocciutamente e vanamente cerchiamo, stanno dentro a un "sì".