Il viaggio. Il Pakistan che non t'aspetti: accogliente oltre i radicalismi
Mazar-e-Quaid, noto anche come il Mausoleo Jinnah o il Mausoleo Nazionale, è l’ultima dimora del ”grande leader” Mohammad Ali Jinnah, fondatore del Pakistan
Si potrebbe dire, parafrasando la nota espressione a proposito di Egitto e Nilo, che il Pakistan è un “dono dell’Indo” e lungo il corso del grande fiume e dei suoi affluenti con un bacino che copre 1,12 milioni di chilometri quadrati, compreso il 65 per cento del territorio pachistano, restano le vestigia di una storia di 5.000 anni. Dalle coste dell’Oceano indiano alle vette di Himalaya, Hindukush e Karakorum, passando per i deserti del Sindh, del Baluchistan e le pianure irrigue del Punjab, si distende per quasi 800mila chilometri quadrati un Paese racchiuso tra orgoglio islamico e varietà delle radici, tra ideali dei fondatori e discriminazioni persistenti, tra democrazia e autoritarismo, elementi tutti che segnano la vita dei suoi 230 milioni di abitanti.
Al comune visitatore straniero (stavolta ci mettiamo in quest’ottica particolare, che cambia anche la prospettiva giornalistica), il Paese offre una realtà sicuramente meno oppressiva di quanto comunemente si pensi, anche se una scorta viene a volte imposta per gli spostamenti e alcune precauzioni sono d’obbligo. Quasi ovunque è garantito l’accesso ai luoghi di culto, ai palazzi, ai musei, agli affollati mercati e ovunque i pachistani chiedono e condividono informazioni, cercano foto o selfie, fanno spazio ai turisti stranieri nei luoghi in cui a loro sono richieste attese e pazienza. Accoglienti anche nelle moschee e nelle madrase, danno e si guadagnano rispetto, forti della loro identità e della volontà di farsi conoscere e capire.
D’altra parte, la loro storia viene da lontano, è tra le più antiche e cosmopolite al mondo, anche se il Paese ha solo 76 anni. Il museo di Karachi espone i ritratti di Muhammad Ali Jinnah, che volle la nascita del Pakistan per strapparlo a quella che percepiva come un’integrazione impossibile con un’India libera dai britannici ma a maggioranza indù. La città che diede i natali a Jinnah e dall’agosto 1947 fu per un decennio capitale del neonato “Paese dei puri” ospita anche l’austero mausoleo di marmo bianco che accoglie le spoglie sue e della sorella Fatima insieme a quelle del primo capo del governo pachistano, Liaqat Ali Khan, e della consorte Ra’na. Una tappa indispensabile per delegazioni straniere in visita, per i periodici omaggi della autorità e per i turisti, ma a cui tutti i pachistani guardano il 25 dicembre, anniversario della nascita di Jinnah per avere suggerimenti e speranza dalla memoria del leader deceduto un anno dopo avere concretizzato il suo progetto di Stato indipendente.
Quasi 500 chilometri più a Nord, a Garhi Khuda Bakhsh, presso la città di Larkana, sorge un altro mausoleo, quello della famiglia Bhutto. Irreale sopra un orizzonte di villaggi, di campi ricoperti di stoppie e di fornaci di mattoni – altrove in Pakistan simbolo della schiavitù per debito che nessun governo o regime ha mai intaccato – si staglia l’immenso edificio che domina l’orizzonte con le sue cupole bianche, quasi galleggianti nel cielo terso dell’inverno. Un’ “ultima dimora” principesca al centro dell’immenso “feudo” di famiglia, dove sono sepolti Zulfikar Ali Bhutto, fautore di un socialismo con sfumature autoritarie e populiste, ministro degli Esteri per due mandati fino al 1971, presidente della Repubblica per il biennio successivo e poi premier. Una parentesi di governo democratico tra due dittature militari.
Della seconda dittatura – guidata dal generale Zia ul Haq – fu vittima con l’arresto il 5 luglio 1977 e l’impiccagione due anni dopo. Sulle orme del padre, con orgoglio e testardaggine, si pose negli anni successivi la figlia Benazir, che contrastò militari e avversari politici con determinazione. Imponendosi quindi come premier alla morte del generale Zia nel 1988, per uno storico incarico, seguito un secondo tra il 1993 e il 1996, prima di restare coinvolta negli scandali che riguardavano il marito e nelle faide familiari. Costretta in seguito all’esilio, terminato tragicamente con l’assassinio al ritorno in patria il 27 dicembre 2007, quando voleva riproporsi alla guida del Paese.
Resta l’eredità del Partito del Popolo pachistano fondato dal padre, che Benazir aveva traghettato dal socialismo al neoliberismo, ma che oggi condivide l’immagine negativa di una politica determinata più a strumentalizzare povertà, sfruttamento e divisioni più che a cancellarli. Vengono così lasciati spazi alla propaganda dell’estremismo religioso, che però fatica a prendere saldamente piede in Parlamento e sicuramente resta minoritario nel contesto della Repubblica islamica a maggioranza sunnita, dove è forte la resistenza al radicalismo di matrice araba. A partire dalla tradizione sufi, che coinvolge ed emoziona ancora oggi una parte consistente della società - con gli imponenti mausolei dei suoi santi e la sue manifestazioni musicali e poetiche - così come affascina i visitatori stranieri.
All’estremo Nord della provincia del Punjab, solo una trentina di chilometri separano la città-guarnigione di Rawalpindi dalla capitale Islamabad, ai piedi delle ultime propaggini del sistema himalayano. Pochi chilometri che in un certo senso segnalano fisicamente il duopolio di potere civile e militare che ha caratterizzato l’intera storia del Pakistan indipendente. Gli ideali di inclusione e di universalismo dei fondatori sono evidenti nella città-capitale sorta negli anni Sessanta, disegnata secondo una pianificazione funzionale, sede delle maggiori istituzioni, moderna e con una identità e un ruolo chiari rispetto alla capitale economica e maggiore città, Karachi, all’estremo Sud, e l’indiscussa “capitale culturale”, Lahore, capoluogo del Punjab, che custodisce il retaggio storico e artistico di ispirazione islamica.
Rawalpindi è sì cresciuta a dismisura oltre le mura dei forti e delle caserme ereditati dai britannici, diventando un centro ricco di traffici e commerci, ma resta anzitutto punto nevralgico di un apparato militare potente. Esso, avvalendosi di grandi risorse pubbliche e di proprie attività economiche, oltre che del sostegno statunitense, rafforza costantemente il proprio ruolo. Lo fa sia in funzione “esterna”, soprattutto per il persistente rischio di conflitto con la sorella- rivale India, sia in funzione “interna”, per garante di ordine e governabilità. Sono stati i militari ad appoggiare nelle elezioni dell’agosto 2018 la candidatura dell’islamista Imran Khan, un tempo star del cricket, sport nazionale; sono stati loro lo scorso maggio a negargli il sostegno, favorendo il “golpe” parlamentare con cui è stato deposto dalla carica di primo ministro (dopo aver subito un attentato è sfuggito all’arresto nei giorni scorsi), benché il suo partito centrista Pakistan Tehreek-i-Insaf abbia raccolto la chiara volontà degli elettori. L’offensiva militare in preparazione come risposta a decine di attacchi terroristici dall’inizio dell’anno rivendicati dai taleban pachistani, costati la vita a numerosi poliziotti e paramilitari, non potrà che accrescere il ruolo essenziale, di stabilizzazione, proposto e spesso “imposto” dalle Forze armate.
Anche Peshawar, la città prossima all’Afghanistan, roccaforte dell’etnia Pashtun di cui Khan reclama l’appartenenza e dove ha sede il suo partito, sembra lontana dall’immagine di asilo per barbuti estremisti religiosi contagiati dal tribalismo delle aree circostanti e dall’ideologia taleban. Allo straniero mostra un volto vivace e rilassato, dal Mercato dei Cantastorie alle fabbriche di armi che riproducono i mitra Kalashnikov e le pistole Beretta con la stessa certosina manualità degli orafi nei laboratori attorno alla grande moschea di Mahabat Khan. Il museo di Peshawar è uno dei più belli del Paese per completezza e perizia espositiva. Una realtà anche qui distante all’apparenza dai problemi che spesso accompagnano il Pakistan nella sua narrazione fatta in Occidente, problemi che non sono tuttavia scomparsi.
Si tratta di un Paese certamente impoverito e indebitato, devastato dalle ultime alluvioni, carico di contraddizioni e deluso dalle élite. E in questa condizione guarda tra speranza e rassegnazione alle nuove elezioni previste in autunno. Da oggi ad allora molta acqua scorrerà nell’Indo e lunga e accidentata rimarrà la strada per proporre ai pachistani prospettive credibili di una vita migliore.