Cronache di frontiera da un ospedale torinese. Il nuovo mondo in una stanza di bimbi
Cronache di frontiera. Sant’Anna di Torino, via Ventimiglia. Donne, papà, medici, infermiere. Con me, per un controllo, l’ultimo della famiglia, Giacomo. Nelle stanze che s’affacciano sul Po, quasi per caso, ho preso la vita per mano, mia e degli altri. Le mani di una bimba dello Sri Lanka, di un cinesino, di un peruviano, di un bimbo italiano. Mai così tanti. L’arcobaleno sembra stagliarsi sui muri, anch’essi di colori vivacissimi, del reparto. E Torino, si conferma, un’altra volta laboratorio d’Italia e avanguardia dell’Europa che verrà. Stringo quelle mani, sento il pulsare del grande dono di Dio. Vedo gli occhi che straripano gioia delle mamme e penso: a quelle che stanno attraversando sui barconi il Mediterraneo.
Anch’esse stringono le mani dei loro figli. Anche loro sentono scorrere l’innocenza dei neonati, ma sono sole, spesso maltrattate, a volte violentate, non un soldo, non un aiuto, nulla. Sopravvivono per la speranza, per il sogno di giornate migliori. Ma spesso, troppo spesso, nella notte le onde lunghe, alte, inarrestabili e aspre, squarciano le vecchie carene dei criminali che le hanno imbarcate. E quelle mani lentamente lasciano la stretta e la vita.
Penso alle donne che, anche oggi, sono in marcia tra ciò che resta dei campi di grano e mais in Macedonia, Bulgaria, Serbia, Ungheria. Hanno in braccio ragazzini spauriti. Li tengono per mano e, in quel gesto, c’è tutto l’amore, la fiducia, l’abnegazione di una donna, la maternità. E io sono qui con Giacomo per mano e mi chiedo: perché? Qui ci sono, per la prima volta, accanto agli italiani per storia di famiglia, bimbe e bimbi di 85 Paesi. Arrivano dalla Romania al Marocco, dalla Nigeria all’Albania, dalla Cina al Perù. E, mentre 'fuori' le ore scorrono caotiche, problematiche, critiche come sempre, il mondo di domani sembra davvero un girotondo gioioso di culle. Nascono qui perché i genitori sono di passaggio e vogliono raggiungere altri Paesi europei, oppure da anni vivono qui e hanno un lavoro. Nei nomi, moltissimi anche italiani, c’è la voglia di aprire un nuovo capitolo di vita, integrandosi. Stringo le mani dei bimbi e penso al mistero della vita, alle mani di Dio (qualunque sia il loro Dio) che li ha portati fin qui.
E non riesco a non pensare ai bimbi che, ogni notte, muoiono, affogati, in mare. Soli perché, sempre più spesso (25 mila i minori giunti in Italia senza nessuno), i genitori al culmine della disperazione pagano il 'passaggio' per loro, i più piccoli, la grande speranza, mentre condannano se stessi alla fame e alle insidie di guerre, lotte tra bande e persecuzioni. Nei pressi della sala parto c’è una babele di lingue che ha dell’incredibile – frasi in piemontese, italiano, inglese, portoghese, dialetti incomprensibili – ma un unico respiro, quello della vita. Mohammed accanto ad Alessandro, Leonardo, Lorenzo.
Nei monitor del nido sembra di rivedere in flashback, tutte le ondate migratorie del Novecento: da Friuli e Veneto, da Sicilia, Campania, Calabria e ora dall’Africa, dall’Est europeo e dall’America più povera. Colori, calore, sorrisi e problemi, come sempre, si stemperano in sorrisi, timori, lacrime. Ma questo, in anteprima, è il volto del nuovo mondo. Un mondo che c’è già: per ora in una stanza piena di bimbi. C’è nonostante i terrorismi di gesti e parole, i muri, i chilometri di filo spinato alle frontiere, le barriere, i respingimenti... C’è, ed è un simbolo incancellabile. Forse profetico.