Analisi. Il fronte dei campus nell'America verso il voto
Irruzione della polizia nel campus dell’Ucla a Los Angeles, proiettili di gomma esplosi in Arizona nei confronti degli studenti, arresti in Texas, in Florida, nel New Hampshire, alla Fordham University di New York e soprattutto alla Columbia, l’università di Jack Kerouac e Allen Ginsberg, santuario della protesta che nel Sessantotto vide scendere in piazza migliaia di persone scandendo uno slogan maturato quell’anno dopo la durissima repressione alla Convention democratica di Chicago. Lo slogan, all’epoca rivolto a Lyndon B. Johnson dai tanti campus americani, era: “The whole world is watching”, il mondo intero ti sta guardando.
Sembra ieri. Sembra una riedizione del film del 1970 "Fragole e sangue", dove la guardia nazionale sgomberava brutalmente le aule dell’università di San Francisco. Solo che oggi i volti, i cartelli di protesta branditi di fronte agli scudi della polizia, le kefiah palestinesi, gli scontri fra opposte fazioni hanno preso il posto del crepuscolo della “Summer of love” – che sbocciò nel City Light Bookstore di San Francisco quasi sessant’anni fa radunando il meglio (e talvolta il peggio) della controcultura americana – per divampare poi in un rogo che a partire dagli scontri razziali di Watts (un distretto di Los Angeles), e dai disordini di Detroit finì per incendiare mezza America.
Con una differenza sostanziale rispetto a quel passato: all’epoca, all’ombra di figure iconiche e di pace come quella di Martin Luther King o di legalità come Bob Kennedy, di profili controversi come quello di Malcom X, delle Black Panthers, o dello stesso Henry Kissinger, la protesta giovanile si scagliava contro la guerra in Vietnam, l’autoritarismo delle istituzioni tradizionali, la società dei consumi e i suoi valori.
Veicolata da una stagione musicale di ricchezza ineguagliabile che ne faceva da colonna sonora. Uno specchio dell’America in crisi di identità che – come era accaduto centotrent’anni prima con Tocqueville – catturò l’attenzione di intellettuali europei come Theodor Adorno o lo sguardo di registi come Michelangelo Antonioni con il suo Zabriskie Point.
Oggi la protesta è una battaglia fortemente radicalizzata fra i sostenitori della Palestina (e inevitabilmente di Hamas) e gli atenei, il governo, la stampa che non riescono e non sanno come disinnescare una protesta anti-americana e anti-israeliana che è già diventata uno degli ingredienti-chiave della competizione elettorale che si chiuderà il 5 novembre. A farne le spese in termini di popolarità al momento è il solo Joe Biden. Il quale rischia da un lato di passare per l’imbelle presidente che non riesce a fermare l’onda del radicalismo filo-islamico e dall’altro per l’ambiguo alleato di Israele, che con una mano minaccia Netanyahu (tramite il globetrotter Blinken) e con l’altra gli garantisce fondi, armi e veti all’Onu per continuare il lavoro sporco a Gaza. Con il non brillante risultato di essersi inimicato l’elettorato arabo-americano (quello del Michigan – uno “swing State” – potrebbe essere decisivo), di avere insospettito quello ebraico e di aver perso dieci punti di popolarità per aver fatto agli uni e agli altri promesse immantenibili.
Il silenzio strategico di Donald Trump la dice lunga. I punti di forza della sua agenda elettorale, del resto, sono noti: inflazione, economia, immigrazione illegale, sperpero di risorse americane a favore di «immeritevoli vassalli morosi» come l’Europa, la Nato e soprattutto l’Ucraina. Cui si è aggiunto – dividendo e divaricando ulteriormente sensibilità religiose e convenienze politiche – l’aborto. E, da qualche settimana, i disordini nelle università. Sette piaghe per Joe Biden, che Trump cavalcherà sicuramente fino alla fine.
Biden lavora notte e giorno per disinnescarne almeno un paio. Il cessate il fuoco a Gaza, per cominciare, che ogni giorno sembra giungere alla meta e ogni giorno si disfa come una tela di Penelope. Ma anche quella protesta filo-palestinese che facilmente potrebbe attizzare il fuoco di una reazione violenta da parte degli “orfani” – per il momento silenziosi – di Capitol Hill, anche se voci ricorrenti parlano già di gruppi di provocatori infiltrati fra gli studenti, legati ai circoli di Make America Great Again e forse alla stessa QAnon. Quel 6 gennaio è stato uno choc per tutti gli americani. I quali sanno – e questo qualcosa dovrebbe contare quando si tratterà di deporre la scheda nell’urna o di inviare per posta il proprio voto – che mai forse come ora il Paese è stato così diviso.
Per questo, come in quel ’68 in cui le violenze di piazza di Chicago fecero perdere a sorpresa il democratico Humphrey e vincere Richard Nixon, il mondo intero sta guardando con crescente apprensione come si snoderà il lungo duello fra i due stanchi avversari di un’America in vistoso declino, prigioniera delle proprie paure e dei propri fantasmi.