Le ragazze di Chibok. Il nostro silenzio e la loro audacia
Mille giorni da quella notte del 14 aprile 2014 a Chibok, nel nord est della Nigeria, quando un commando di Boko Haram fece irruzione nel dormitorio di un collegio femminile. L’inferno spezzò il sonno di 276 ragazzine fra i 12 e i 17 anni. «Urlavano 'Allah akbar', ci minacciarono con le armi, ci trascinarono via a forza», raccontarono quelle che riuscirono a scappare. Per le rapite il web si mobilitò: #bringbackourgirls, ridateci le nostre ragazze, era l’hashtag che fece il giro del mondo. Ventuno ragazze sono state liberate questo autunno, un paio ancora sono state ritrovate. Una vagava nella foresta, un bambino di pochi mesi fra le braccia. Ma in quasi duecento restano prigioniere. Il web, che sembra nel mostro mondo onnipotente, può poco o nulla nelle foreste in cui Boko Haram, costola africana del califfato nero jihadista, detta un’altra feroce legge.
E quelle duecento giovanissime donne rimangono in ostaggio. In alcuni video i rapitori le hanno mostrate: ricoperte completamente dal velo nero, tranne il volto di bambine. Gli occhi chini a terra, le labbra mormoranti qualcosa, forse le preghiere islamiche cui sono state costrette. Perché buona parte delle ragazze di Chibok erano cristiane. I rapitori avevano scelto in loro un simbolo: per la fede e per la decisione delle loro famiglie, nel profondo dell’Africa, di mandare le figlie a scuola. Mille giorni, a quindici anni, sono un bel pezzo di vita. Un pezzo infinito se si pensa alle violenze che le superstiti hanno testimoniato.
Conversioni sotto la minaccia delle armi, matrimoni forzati, stupri a ripetizione, botte, fame. La storia atroce di un sequestro collettivo di bambine. In un rapporto di Human Rights Watch dell’ottobre 2016 delle fuggitive raccontano. Una quindicenne dice a un guerrigliero che è troppo piccola per sposarsi. Quello le indica la propria figlia di 5 anni, e le dice che anche lei è già stata data in sposa: si aspetta solo che abbia l’età perchè il matrimonio venga consumato. Un mondo di soprusi e morte, un mondo alla rovescia emerge in altre testimonianze riportate dalla stampa internazionale. «A volte un guerrigliero veniva a chiedere chi voleva sacrificarsi per il jihad. Facevamo a gare per diventare kamikaze. Non eravamo indottrinate. In realtà, volevamo solo scappare da Boko Haram. Se ci avessero dato una cintura esplosiva, magari avremmo incontrato dei soldati nel tragitto e avremmo potuto avvisarli e salvarci. Avremmo potuto fuggire».
Oggi in quasi duecento sono ancora prigioniere di questo destino. Delle ventuno liberate lo scorso autunno, diciotto erano incinte. Quasi tutte le rapite sono dunque, si può ipotizzare, ormai madri, nel loro inferno, che dunque è un inferno doppio: madri bambine di bambini denutriti e malati. Il web adesso, dimentico, tace. È troppo grande il male di Chibok perchè delle semplici parole, seppure gridate milioni di volte, possano smuoverlo. Le sole parole imprevedibili in questa tragedia sono quelle pronunciate dal giornalista freelance italiano Daniele Bellocchio, recatosi in Nigeria per testimoniarne il dramma e, dieci giorni fa, intervistato da Radio Vaticana. Bellocchio ha detto di avere sentito dire da alcune ragazze scampate a Boko Haram: «Noi siamo anche disposte a perdonare, perché bisogna ricreare una nuova Nigeria, dimenticando la violenza, e per farlo serve il perdono».
Parole inaudite, a fronte del male che queste ragazzine hanno subito. La prigionia di duecento donne bambine e dei loro figli continua. Il mondo se ne va dimenticando. L’unico fiato di speranza nel regno del buio, nell’inferno che questi mille giorni africani ci raccontano viene, incredibilmente, dalla voce di alcune vittime – in un’audacia che ci fa tremare.