Nel conflitto tra "caritas" e tribù. Il naufragio dell'Europa
Il mare era calmo. Ci volevano le parole del Pontefice, di un uomo venuto quasi dalla fine del mondo, per spazzare via ogni inutile discorso sulla tragedia di Pylos. Questo semplice, essenziale richiamo all’inesorabilità dei fatti non lascia alcuno spazio alla futilità di tante ricostruzioni di facciata.
Le parole del Papa non ci dicono solo che la tragedia si poteva evitare. Che sarebbe bastato poco per salvare seicento vite umane. Che forse l’intervento esterno ha contribuito alla tragedia. Per chiarire questi aspetti, ci sarà sicuramente un’inchiesta e appurerà la dinamica degli eventi. Quelle parole ci parlano invece della radicale mancanza di senso di quel che è successo. Ci dicono che in un mondo logico, che si radica in una civiltà e rispetta un insieme di valori condivisi, quel che è successo non poteva succedere. Non ha senso. È quest’assurdità che ci rende ancora più sgomenti.
L’assurdo è lo scarto, l’incomprensibile discrasia tra il contesto, il mare calmo, e i comportamenti umani che hanno provocato il disastro. E quali che siano stati questi comportamenti, capiamo a poco a poco che essi nascono tutti, senza eccezione, dall’indifferenza, dal disinteresse per le vite costrette a centinaia nella stiva di un barcone, offese, mortificate nella loro umanità prima ancora di essere in pericolo di vita. È quest’apatia, quest’impassibilità emotiva nei confronti dell’altrui umanità a darci la misura dello smarrimento spirituale, oltre che delle disparità sociali ed economiche, di cui soffrono le società europee (e non solo) di oggi.
Non si tratta solamente dello stillicidio quotidiano di morti, di naufragi che si susseguono al largo di Lampedusa, sulla rotta atlantica, al largo della Tunisia – l’ultimo proprio mentre scriviamo queste righe.
Quel che lascia senza parole è l’osceno degrado morale, il disfacimento di una civiltà che, contro tutta la propria storia, accetta con indifferenza la morte quotidiana di donne, uomini e bambini. Che a migliaia li lascia annegare sotto le nostre coste – sotto le nostre stesse case. Che leva i propri manganelli contro i bambini siriani, come a Budapest. Che lascia famiglie a marcire nel gelo e nel fango, come a Idomeni. Che osserva con freddo distacco i roghi di Lesbo. Che si volta dall’altra parte di fronte alle torture, agli stupri, alle sevizie inflitte a donne e uomini migranti nel lungo cammino verso le coste del nord Africa.
Costruita sull’idea di dignità umana, la civiltà europea vive oggi un conflitto profondo, che neppure il Novecento e i suoi orrori sono riusciti a risolvere una volta per tutte: da un lato, la sacralità della caritas, il principio universale di fratellanza umana, con la sua progenie laica e moderna, i diritti umani; d’altra parte, un senso di appartenenza di origine tribale, che discrimina ed esclude coloro che non condividono lo stesso sangue, la stessa stirpe, lo stesso suolo. Nel calmo mare greco, è questo conflitto, che ci interpella tutti, a essere andato in scena ancora una volta.
Senza esserne forse del tutto consapevoli, in nome di un’illusoria “identità” stiamo distruggendo alcuni dei tratti strutturali della civiltà occidentale: la dignità della persona, l’accoglienza, la fraternità, la solidarietà. Sono alcuni dei caratteri più intimi, più caratterizzanti la società occidentale. E sono, per dirla tutta, tra i pilastri dell’ordine democratico. Forse ci voleva davvero un uomo venuto da lontano per dirci che non difenderemo il nostro mondo tradendone i principi più sacri. Che non lo salveremo, e non salveremo i nostri figli, distruggendo la cultura, i valori e la decenza della civiltà occidentale. E che i morti di Pylos, come quelli di Cutro, di Lampedusa e di tutto il Mediterraneo sono una pietra tombale non solo sulle loro legittime speranze, ma sul destino stesso dei nostri figli.