Il mosaico dissonante degli Ambrogini ma la civiltà solidale non dà morte
La decisione di assegnare il riconoscimento anche a Cappato protagonista della battaglia per il suicidio assistito e l’omicidio del consenziente non convince. Il magistrato (e opinionista) Giuseppe Anzani ragiona da par suo. E io ragiono con lui, augurando al premiato...
Caro direttore,
leggo nelle cronache che oggi il Comune di Milano dà l’Ambrogino d’oro a Marco Cappato. L’Ambrogino d’oro è un premio conferito a chi ha saputo “dare un contributo speciale alla città”, difendendo o sostenendo delle “cause in favore del bene comune”. Marco Cappato è quello che ha portato gente a suicidarsi in Svizzera. L’ha fatto e rifatto. La volta scorsa è finito assolto, perché la Corte costituzionale tolse la punibilità dell’aiuto al suicida in condizioni particolari, tra cui la dipendenza da strumenti di sostegno vitale con sofferenza intollerabile; da accertarsi, in avvenire, medicalmente. Stavolta Cappato si è autodenunciato, perché ha dato lo stesso aiuto di prima al suicidio di un uomo senza quelle condizioni. Confessione ostentata di quello che la Consulta ha ribadito essere, fuor d’eccezioni, un delitto. Un delitto grave (da 5 a 12 anni) per il quale a rigor di codice, se vi è rischio di reiterazione, misure cautelari serie parrebbero più consone di quelle che piovono sui miserabili che rubano un pane al supermercato. Da vecchio giudice, non auspico questo, spero invece fortemente la resipiscenza. La Corte ha spiegato che dalla Costituzione «discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo», non invece «la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire». Soprattutto a tutela «delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio». Che meriti abbia dunque il politico Cappato per l’Ambrogino non capisco. E m’indigno, come i milanesi eredi di Ambrogio, che fermò alla porta del tempio non un sindaco, ma un imperatore. Non so chi possa a Milano inebriarsi per l’odore cadaverico che una crociata suicidiaria si porta appresso. Per favore date il premio e rendete omaggio a chi si prodiga per la cura dei malati, per la palliazione, per la condivisione solidale e umana. Non per la morte.
Non fingerò di darti del lei, mio caro Anzani. Tu, magistrato e opinionista di peso, io giornalista, come tantissimi altri e altre (anche politici) siamo diventati adulti e abbiamo scelto le nostre strade di vita, di lavoro e d’impegno coltivando e cercando di onorare un’idea innocente e soda della solidarietà. Quell’idea che spinge a soccorrere chi annega, a fermarsi se qualcuno è a terra al ciglio della strada, a non negare mai il pane a chi lo chiede, a spendersi contro ogni forma di violenza e per la causa della pace. Un’idea solidale che ti dice e quasi ti impone – eccoci al punto che tu, amico mio, sollevi oggi – di abbracciare chi minaccia di uccidersi, di tenergli la mano con parole e gesti, di stare accanto con appassionata delicatezza a chi sta in bilico sul parapetto della vita e vorrebbe buttarsi giù. Abbracciarlo, sì, non dargli la spinta decisiva. Già, ma se il dolore urla e strazia… Non ci stancheremo mai di dire che cancellare il dolore, che non è solo fisico, non significa mai cancellare la persona, ma è uno dei necessari modi per custodirla. Perché ogni gesto e ogni parola che toglie dalla nostra carne e dalla nostra anima tutto il possibile dolore è un’impresa che va condotta con dedizione, anche se per questa via si consuma un po’ della vita di cui ci prendiamo cura (ci fu un Papa, e si chiamava Pio XII, che lo disse agli scienziati e al mondo, con profonda dottrina e umanissima saggezza, un anno prima che io nascessi, nel 1957). Marco Cappato è, invece, un uomo che crede che solidarietà e pietà significhino anche aiutare a porre fine a una vita quando chi ne è “titolare” dice che vuol farla finita. E questo – come tu, Giuseppe, ricordi – anche se ci sono mezzi per farlo vivere ancora senza dolore. È una visione, quella di cui Cappato si fa portavoce, che ha preso piede. Interpretazione estrema di un’autodeterminazione assoluta dell’individuo. Eppure – come ha ricordato la Corte costituzionale del nostro Paese – non può mai essere una pura volontà di suicidio a legittimare la morte a comando e, in certi casi, l’omicidio del consenziente. Ma Cappato insiste proclamando una nuovissima civiltà. Per me e per te da brividi. Dunque, non siamo d’accordo con lui. E non solo perché abbiamo un’idea sacra del valore unico di ogni singola persona, ma perché abbiamo quell’idea soda e buona della medicina e, comunque, del prendersi cura che si traduce nel non accanimento, ma soprattutto nel non abbandono terapeutico. E il vero rischio del nostro tempo impoverito di umanità, il furto di dignità che incombe e che già si fa rapina in intere parti del Sud del mondo e in pezzi delle nostre società “ricche”, è proprio l’abbandono terapeutico dei poveri, dei marginali, degli imperfetti e dei superflui. Ecco perché quest’Ambrogino a Cappato non convince, nonostante ci siano altre sue battaglie ideali che non ci vedono affatto distanti. Così come magari a qualcuno non sarà sembrato giusto il riconoscimento, non personale ma comunitario, dato da Milano nel 2018 a noi di “Avvenire”. Gli Ambrogini, del resto, da anni sono diventati questo mosaico dai colori affascinanti e anche dissonanti. E in ogni caso i premi, negli occhi e per la sensibilità degli altri, si possono sempre meritare “poi”, anche correggendo i e ricentrando il proprio impegno. Auguro a Cappato di saperlo fare, non perché io pensi di avere ragione, ma perché c’è sempre una buona ragione per stare dalla parte della vita, soprattutto quando è più fragile e vulnerabile.