Opinioni

Le parole (e i gesti) che uccidono. Il mondo così non va

Alessandro Zaccuri sabato 19 settembre 2015
Morire di vergogna, nonostante tutto. Nonostante l’affetto della famiglia, nonostante le cure e i consigli degli psicologi. Morire perché non si riesce più a farcela, semplicemente. A uscire di casa, a farsi vedere in paese, a riprendersi la propria vita. Come sarà cominciata, la storia di Andrea? Con qualche malignità mormorata a mezza bocca, cosa vuoi che sia una battuta. E poi ci si dà di gomito quando quello arriva, gli si affibbia un nomignolo, si comincia a usarlo con disinvoltura, perfino in sua presenza. Lo si umilia a parole, illudendosi che siano parole soltanto. Ci si abitua, intanto. E si passa alle vie di fatto. Gli scherzi, le umiliazioni, le prevaricazioni sempre più insistite, forse innominabili. Già che ci siamo, filmiamo tutto con il telefonino. È uno scherzo, dài, si fa per ridere. Per ridere si mette tutto in rete, per giustificarsi si fa girare la voce, per sentirsi più forti si dice che è lui, il perseguitato, a essere un debole.Andrea Natali da Borgo d’Ale, in provincia di Vercelli, morto di sua mano in seguito alle vessazioni dei colleghi della carrozzeria in cui aveva lavorato in passato. C’era stato un esposto contro gli aguzzini, erano partite le indagini, ma dentro Andrea, nella trama sottile dei suoi ventisei anni, qualcosa si era ormai rotto. È l’ultima vittima (l’ultima conosciuta, se vogliamo essere onesti) di un’epidemia sociale drammaticamente sottovalutata, contro la quale lo stesso Francesco si è espresso più volte con una determinazione e una chiarezza che non hanno finora ricevuto la dovuta attenzione. «Anche le parole uccidono», ha ripetuto più volte il Papa, e non si tratta di una metafora. Perché nella vicenda di Andrea, e dei tanti altri come lui, delle tante altre tenute in soggezione dal branco, il problema non è il cyberbullismo, non sono le riprese video e neppure le beffe atroci. Il problema è la maldicenza, l’irrilevanza dell’altro, la degradazione del prossimo a zimbello e macchietta, versioni a loro volta approssimative e nondimeno feroci del capro espiatorio studiato da René Girard, dell’homo sacer teorizzato da Giorgio Agamben.Non fa piacere ammetterlo, ma l’Occidente che in questi giorni si interroga pensoso sulla propria capacità di accogliere l’altro inteso nell’accezione specifica di profugo e migrante ha da tempo rinunciato a prendersi cura dell’altro nel senso più letterale e disarmante del termine. Ormai chiunque può essere insultato, messo alla berlina, denigrato e calunniato. La velocità e la pervasività garantite da Internet peggiorano la situazione, d’accordo, ma questa disgregazione del tessuto sociale e dei legami di prossimità si declina anzitutto negli ambienti di lavoro, nei condomini, perfino – come il Papa ha più volte denunciato – nelle comunità cristiane. Le voci che si abbassano alla macchinetta del caffè, la scritta malevola sull’avviso dell’amministratore, il gruppetto di quelli che non parlano a quegli altri. Roba da niente, finché non tocca a te. Un fastidio di Andrea, finché anche Andrea non sei tu.Non è questione di buona educazione, anche se, in fondo, con un po’ di buona educazione molte difficoltà della convivenza verrebbero facilmente superate. È una società che si sbriciola, rinunciando alla declinazione minima del principio di solidarietà per cui l’altro, per quanto diverso da me, è sempre come me. Siamo spietati con chi deroga, in modo magari impercettibile, dai parametri di efficienza solitamente accettati, ma continuiamo a meravigliarci – ipocritamente, vigliaccamente – per l’indifferenza davanti allo straniero. Così va il mondo, si dice. Poi, un giorno, qualcuno non ce la fa più e ci torna finalmente in mente che il mondo, nostra casa comune, è stato creato per andare in un altro modo.