Il momento B. Woods. Il virus, debiti enormi e compiti chiari
Una volta guariti dal minuscolo virus, finiremo schiacciati dal pachidermico debito? L’emergenza sanitaria, cioè, è destinata a trasformarsi in un collasso finanziario globale? Come ben argomenta Paolo Perulli nel fresco di stampa 'Debito sovrano. La fase estrema del capitalismo' (La nave di Teseo), quest’epoca si contraddistingue per l’inesauribile corsa al debito di Stati, aziende e famiglie. Una gara che la pandemia ha reso ovunque forsennata e uniforme, e soprattutto per i primi due, aziende e Stati.
Secondo l’Istituto di finanza internazionale che periodicamente aggiorna il debito aggregato, prima che il coronavirus si insinuasse in ogni angolo del pianeta eravamo già a quota 253mila miliardi di dollari. Il triplo del Pil del mondo e ai massimi di sempre. Fa impressione. Anche se il debito è calcolato come stock e si ripaga dunque a quote nel lungo periodo, mentre il Pil è un flusso definito temporalmente ovvero misura quanto viene prodotto in un solo anno, ad allarmare è proprio il tasso di crescita del debito: salirà in media entro il 2021 di venti punti percentuali rispetto al Pil per le economie avanzate, di dieci per quelle emergenti e sette per i Paesi poveri.
Già quest’anno gli 11mila miliardi di dollari stanziati dalla politica in tutto il mondo per sostenere la resistenza sanitaria e affrontare le conseguenze sociali della recessione catapulteranno il debito governativo globale al livello più alto della storia (101,5% del Pil). Uno sforzo irrinunciabile, certo. Ma alle conseguenze economiche della pace (immunitaria), per dirla con Keynes, è bene pensarci già ora quando siamo ancora in trincea. E sarebbe meglio pensarci tutti, non solo l’Italia che in materia ha già un bel arretrato da smaltire, o l’Europa già capace di uno scatto in avanti con i primi tentativi di condivisione che calcoli meschini non vanificheranno.
Di fronte a questa montagna di soldi da restituire viene in mente la celebre battuta di Ronald Reagan: «Il nostro debito pubblico è abbastanza grande da badare a se stesso». Vero al limite per qualcuno di buona stazza. Il nostro ad esempio non è tra i Paesi più robusti, e alla prima stretta monetaria potrebbe pagare il drammatico conto delle inavvertenze passate. E ce ne sono decine, di Paesi poveri, che hanno già oggi l’acqua alla gola. Anche per questa ragione è stata appena estesa la moratoria di sei mesi sul loro debito. Ma le soluzioni temporanee, pur innovative, sperimentate finora – dai Quantitative easing alla terapia dell’inflazione benefica, dalla riduzione degli avanzi primari alle ristrutturazioni selettive e parziali – questa volta rischiano di rivelarsi spuntate.
Tale è il grado di interrelazione fra le economie che una tessera del domino, piccola o grande che sia, ha nell’attuale inedito contesto la forza di far cadere tutte le altre. Hanno iniziato così a circolare proposte più radicali. Ne ha scritto il 15 ottobre e ancora ieri Leonardo Becchetti, richiamato nuovamente il progetto P.A.D.R.E. ( Politically Acceptable Debt Restructuring in the Eurozone) degli economisti Pierre Paris e Charles Wyplosz. In sede accademica, ha riconosciuto Lucrezia Reichlin ('Corsera', 20 ottobre), se ne discute. Ai bond irredimibili pensava del resto già l’ex presidente della Fed, Ben Bernanke, proponendo nel 2016 una soluzione simile al Giappone.
Ma in una fase di così grande disaccoppiamento tra economia reale e mercati, suggeriscono Domenico Siniscalco ('Repubblica', 19 ottobre) e Giulio Tremonti ('Avvenire', 6 ottobre), per il quale 'siamo a un bivio della storia', è giunto forse il tempo di rivedere le stesse regole e istituzioni che ci siamo dati ormai settant’anni fa, quando vivevamo in un altro mondo. «Momento Bretton Woods», l’ha chiamato Kristalina Georgieva, direttrice del Fondo monetario internazionale. Avanzando un’idea tanto radicale da essere passata quasi inosservata: rivedere alla radice il modello di sviluppo e delle relazioni finanziarie internazionali, come fatto nel 1944, a partire da una ristrutturazione coordinata e complessiva dei debiti gonfiati dalla pandemia.
L’Italia presiederà dal primo gennaio il G20 e il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, si è detto pronto, in un suo intervento su 'Avvenire' (30 settembre), a lanciare ai venti 'Grandi' proprio questa sfida. L’esplosione del debito è tuttavia solo un effetto di concause sottostanti, a livello sistemico. Che qualcosa si sia inceppato nell’assetto complessivo è sotto gli occhi di tutti. Non è in discussione il processo di globalizzazione, irreversibile e per altro ricorrente nella Storia, ma l’inusitata accelerazione degli ultimi anni che ha provocato una «sclerosi istituzionale » ( Tyler Cowen) dentro gli Stati – non più in grado di governare processi e potenze private più grandi di loro – e fra di essi.
Destabilizzante è stato l’ingresso prematuro della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio, fenomeno alla base dei rigurgiti protezionistici odierni, di cui la guerra dei dazi sono un esempio. La globalizzazione dei capitali, poi, ha perso ogni contatto con quella della produzione, alimentando un pericoloso circolo vizioso che finisce per inasprire le disuguaglianze, non solo di ricchezza e reddito, ma anche di opportunità. «Momento Bretton Woods» significa, pertanto, avere la forza di rimettere mano alle fondamenta della casa, a partire dalle stesse istituzioni sovranazionali e dai meccanismi che le governano, e non limitarsi a rabberciare le pareti o riparare i buchi sul tetto. Vuol dire passare a una diagnosi della patologia istituzionale e dalla prognosi socioeconomica a quella antropologica, come indica profeticamente Francesco nell’enciclica Fratelli tutti, ricalibrando l’idea stessa di prossimità nel Ventunesimo secolo e cioè il rapporto tra individuo, comunità e globalità.
Fino a ieri un simile intento poteva appartenere solo alla sfera dell’impossibile, che è propria dell’utopia. Con la pandemia, che ci ha uniti nel bisogno oltre i confini, è entrato forse in quella del possibile, dove agisce la politica quando però riesce a guardare lontano. I primi astronomi, per considerare i puntini di luce non più come decorazioni di un arazzo celeste che girava intorno alla Terra ma come singoli corpi, avevano dovuto deviare la loro immaginazione – e quindi le loro analogie e metafore, il loro pensiero – da un cammino tracciato mentalmente da millenni. Ed è solo un cambio di prospettiva simile che potrebbe favorire l’atteso 'Nuovo patto'. Questa volta, si spera, possibile per tutti.