Il mistero rivelato /8. I sette tempi della bestia
Parole della preghiera, pronunciate da Nabonide, re di Babilonia, il grande re: «Io, Nabonide, fui afflitto da un’ulcera maligna per sette anni, e lontano dagli uomini sono stato allontanato. Un veggente perdonò i miei peccati. Era un giudeo».
La Preghiera di Nabonide trovata fra i manoscritti di Qumran
I nostri atti di giustizia non sono il prezzo della nostra salvezza, sono solo espressione di una legge di reciprocità. L’interpretazione del sogno del grande albero si conclude con un consiglio di Daniele al re Nabucodònosor: «Perciò, o re, accetta il mio consiglio: sconta i tuoi peccati con la giustizia e le tue iniquità con atti di misericordia verso gli afflitti, perché tu possa godere lunga prosperità» (Daniele 4,24-25). La conversione del re e le sue opere di misericordia non sono la condizione per essere ristabilito un domani nel suo regno. Il consiglio di Daniele ci dice comunque che è conveniente convertirsi e fare atti di giustizia e di misericordia verso gli afflitti. È bene tornare giusti e misericordiosi. Potremmo non farlo, e Dio ci amerebbe lo stesso, perché se non lo facesse sarebbe peggiore di noi che amiamo i nostri figli anche quando sono cattivi e ingrati. Ma possiamo anche decidere di essere misericordiosi, possiamo desiderare di somigliare a Dio. Lo possiamo fare proprio perché siamo liberi, perché siamo certi di essere amati anche se non lo facessimo. Sta in questo incontro di eccedenze, in questo dialogo di libertà d’amore, il cuore della Bibbia e, forse, il mistero del suo Dio. Ci vogliono una intera vita e una infinita mitezza per riuscire a mantenere i nostri sguardi al livello degli occhi di Dio, e dentro questo incontro alto di pupille imparare che siamo più belli dei nostri meriti e meno brutti delle nostre colpe.
Terminata la spiegazione del sogno, il libro ci dice che la profezia contenuta in quella visione si compie: «Dodici mesi dopo, passeggiando sopra la terrazza del palazzo reale di Babilonia, il re prese a dire: "Non è questa la grande Babilonia che io ho costruito come reggia con la forza della mia potenza e per la gloria della mia maestà?". Queste parole erano ancora sulle labbra del re, quando una voce venne dal cielo: "A te io parlo, re Nabucodònosor: il regno ti è tolto!"» (4,26-28). Questo pensiero di Nabucodònosor è estremamente importante, una chiave di lettura di questo complesso e bellissimo capitolo. Possiamo immaginare il re mentre passeggia tra i giardini pensili. A un certo punto un pensiero cresce, si stacca da tutti gli altri, si impone nella sua anima fino a diventare il pensiero dominante: ho realizzato davvero qualcosa di straordinario, e l’ho fatto solo "con la forza della mia potenza". Un sentimento opposto a quello che Italo Calvino attribuiva a Kublai Khan: «Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato (...); un senso come di vuoto che ci prende una sera con l’odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri (...); è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma» (Le città invisibili).
Nabucodonosor si trova invece in tutt’altro stato d’animo. È al culmine del proprio successo. Lo vede ovunque, ed è convinto di essere il principale, se non unico, artefice di quell’opera straordinaria. I greci avevano una parola precisa per descrivere questo sentimento del re: hybris, una combinazione di orgoglio, tracotanza e superbia. Il libro di Daniele ci dice poi che ogni potere assoluto è ateo, anche quando è benedetto da sacerdoti e l’incoronazione avviene nel tempio, perché il re finisce per non riconosce che l’origine dei suoi successi e della gloria è al di fuori e sopra di lui. Ed ecco allora il senso della pedagogia della sconfitta e della catastrofe, che arriva a ricordare ai re che non sono dèi e ai loro popoli di non trattarli da divinità. Tutto questo la Bibbia lo imparò durante la grande sconfitta dell’esilio babilonese, e non lo ha dimenticato più. Ma oggi non sono sufficienti neanche le catastrofi a farci comprendere la vera natura idolatrica di questi poteri: e i capi continuano indisturbati a sentirsi dio e noi a considerarli divinità.
La storia conosce una profonda legge dell’evoluzione e del declino dei popoli e delle persone. Il suo centro è la gestione di quel tipico sentimento che si era impossessato del re di Babilonia nel suo giardino. Quando una vita, una comunità, cresce e si sviluppa molto, è inevitabile che un giorno arrivi il pensiero dominante di Nabucodònosor. In un primo tempo, le persone più oneste e religiose riescono a pensare che loro sono soltanto degli strumenti, delle "matite" nelle mani di Qualcun altro che è il vero autore del grande trionfo; ma, quasi sempre, in un altro giorno arriva puntuale il momento quando i successi diventano così sbalorditivi da convincere i "re" che senza di loro tutto quell’impero non ci sarebbe stato, e ne diventano i padroni. Quasi nessun dittatore nasce dittatore, ci diventa un giorno passeggiando nel giardino.
Le storie individuali e collettive di successi straordinari che sono state capaci di durare nel tempo, sono quelle, rarissime, che non sono cadute in questa trappola tremenda, che non sono state colpite da questa "maledizione dell’abbondanza"; perché nel momento stesso in cui quel pensiero seducente e tremendo prende possesso della mente e del cuore, inizia la morte delle persone e delle comunità: "in quel momento stesso ... il regno ti è tolto". Muoiono perché il passato si divora il futuro. Lo studioso inizia a dedicare le proprie energie per promuovere i libri di ieri e non più per studiare per scrivere quello migliore di domani, a frequentare soltanto i luoghi del consenso e degli applausi e a fuggire le critiche, a iniziare a sfogliare i libri degli altri dall’ultima pagina per cercare il proprio nome nella bibliografia. Nelle esperienze collettive i danni sono poi ancora maggiori e più gravi. L’illusione del grande impero si diffonde come peste tra tutti, si auto-rafforza nei dialoghi, diventa infrangibile e infalsificabile. Le voci critiche vengono taciute o, più facilmente, si auto-zittiscono e, magari in buona fede, la celebrazione del Dio della comunità lascia il posto alla auto-celebrazione della comunità diventata dio. Le poche storie di grande successo che riescono a non essere eliminate dal proprio successo sono quelle dove i loro protagonisti sono capaci di una sistematica politica di auto-sovversione, che riescono a curare questa sindrome dello stra-successo quando ancora è solo incipiente. Si fermano prima della soglia critica, tornano poveri e piccoli prima di essere diventati troppo grandi e ricchi per riuscire a farlo, smontano i palazzi e tornano costruttori di tende.
Quando tutto ciò non accade, inevitabile c’è il compimento della parola pronunciata dal cielo sul re: «Egli fu cacciato dal consorzio umano, mangiò l’erba come i buoi e il suo corpo fu bagnato dalla rugiada del cielo, i capelli gli crebbero come le penne alle aquile e le unghie come agli uccelli"» (4,30). Qui è molto probabile che il testo attribuisca a Nabucodònosor un episodio della vita di suo genero Nabonide, l’ultimo re di Babilonia (vedi la preghiera in esergo). È comunque straordinaria la forza narrativa di questi versi. Nello spazio di un mattino il re si ritrova trasformato da sovrano più grande della terra in essere immondo simile ai mostri dell’Eneide o della Divina commedia. Da semi-dio a bestia. Quante volte lo abbiamo visto, e continuiamo a vederlo. La cattiva gestione del grande successo produce sovente queste metamorfosi: ci si addormenta nel letto di sempre e ci si sveglia scarafaggio, senza sapere perché. C’è bisogno di "sette tempi" per sperare di capirlo, e a volte non bastano.
Importante notare che a Nabucodònosor il sogno viene spiegato dodici mesi prima del suo avveramento. Sembra che il re avesse avuto un anno, un intero tempo, per cambiare condotta ed evitare la rovina. Ma è una falsa percezione. In realtà, neanche la presenza di profeti veri riesce a salvare gli imperi dal loro declino, perché quando i sogni tremendi arrivano dentro le notti dei re, il declino è già iniziato da tempo, il punto di non-ritorno è stato già superato. La profezia è autentico dono non perché rivela il futuro, ma perché svela ciò che è già presente sebbene i protagonisti non ne abbiano ancora coscienza. Quel pensiero della passeggiata era già padrone del cuore del re, aveva già occupato tutta la sua vita, molte volte in molti tempi. I profeti non vengono ascoltati dalle loro comunità perché svelano ciò che le comunità sono già diventate, e non vogliono saperlo. Il profeta vede "in sogno" i segni della metamorfosi prima che essa si compia: e così vede già bestie dove tutti gli altri vedono ancora uomini e donne. E nessuno li prende sul serio.
Poi arriva il giorno in cui la metamorfosi si attua davvero e tutti vedono, dentro e fuori la comunità, che si è diventati davvero bestie. Lì, qualche volta, ci accorgiamo che eravamo usciti da molto tempo dal consorzio umano, che ci comportavamo già da lupi mannari e licantropi, e senza saperlo abbiamo divorato molte prede mentre costruivamo il nostro successo infinito. Il tempo della bestia è sempre un tempo tremendo. È un tempo lungo: sette tempi. Ci sentiamo circondati da fiere e ci sentiamo animali anche noi: abbiamo paura, proviamo molta rabbia e un infinito rimorso. Vorremmo scappare, ma dobbiamo restare, perché la sola cosa saggia che possiamo fare è attendere la fine dei "sette tempi". Chiediamo agli alberi di insegnarci la loro mansuetudine, alla terra la sua humilitas, diventiamo mendicanti di umanità verso piante, sassi, stelle, e con Giobbe impariamo il linguaggio dei vermi. E finalmente capiamo i Salmi, iniziamo a pregare dopo aver detto tante preghiere. Ci parlano Geremia e Osea, il canto del servo di YHWH diventa il nostro unico canto. È il tempo del dolore immenso, dell’umiliazione. Si può anche morire, alcuni muoiono davvero. Ma si può anche decidere di continuare a vivere: qualcuno ci riesce, qualche volta anche la comunità.
La Bibbia ci dona infatti una grande buona novella: anche i sette tempi della bestia possono essere un tempo di salvezza: «Ma finito quel tempo io, Nabucodònosor, alzai gli occhi al cielo e la ragione tornò in me e benedissi l’Altissimo» (4,32). Al termine dei sette tempi, il re-bestia alza di nuovo gli occhi. È nel libro di Daniele dove la Bibbia iniziò ad un usare la parola "cielo" come sinonimo di Dio. La seconda metamorfosi sta tutta in quel grugno che ritorna volto mentre si torce in cerca di stelle.
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