Opinioni

Padri e figli, nonne e nipoti, basta guardarsi negli occhi. Il miracolo delle vacanze: accorgersi della prodigiosa presenza dell'altro

Davide Rondoni mercoledì 11 luglio 2012
​Nel modo che abbiamo di parlare delle vacanze o di quel che alcuni chiamano ancora le ferie, si svelano piccoli e grandi panorami. Piccole e grandi verità. Perché, si sa, la verità è un panorama, non certo una formula matematica o una sigla o un codicillo. Tra i panorami che si aprono se stiamo attenti a come parliamo – cioè a come viviamo o a come dovremmo vivere – ce n’è uno che riguarda i verbi. Si dice: andiamo in vacanza per "stare un po’ insieme". Insieme a chi si ama, ai figli, agli amici, alla famiglia. Per stare insieme. Ma cosa significa "stare" insieme ? Non so se v’è mai capitato di stare, senza svolgere un’azione precisa, con qualcuno che amate, che so, i figli. Stare lì. Senza fare niente di preciso. Lo strano sfarzo della pura presenza. Sì va beh, mangiare o bere qualcosa, guardarvi intorno, scambiare due chiacchiere da nulla. Insomma niente di che. E intanto sentire che state e siete insieme. Cosa c’è dentro questo "stare" che sembra vuoto, inutile ? Li vedi, per esempio fuori dagli stabilimenti balneari, al mare: i ragazzi abbarbicati intorno ai tavolini. Stanno lì. Chiacchierano. Spesso un dire niente. Ma un tenersi con i fili delle parole. Pur di stare insieme. Discorsi che non vanno da nessuna parte. Si fermano, riprendono, aspettano di nuovo l’onda. Oppure vedi certi padri arrivati nei luoghi di villeggiatura, abbandonati su un dondolo o un panchina coi loro figli. Non fan niente, stanno. E di più vedi le madri, e le grandi madri dette nonne, regine dello stare. Per quasi tutto il tempo si affaccendano, sbrigano cose, si affannano, non di rado diventano pure nervose nella furia di fare, sistemare. Però, quando viene il momento, sanno come si fa a "stare", a mettersi lì, solo guardando i loro figli, o i nipoti, o a raccoglier le chiacchiere di qualche nuora. Stare insieme sembra un far niente. E certo può essere così. Un bighellonare, un vuoto noioso, una mancanza di forze, un vizio del tempo. Appunto, dipende tutto da cosa vuol dire "stare". Che – come suggerisce la radice latina del verbo – può significare un esser presenti, un ergersi. Stare uguale a essere presenti. E all’inverso c’è uno stare che somiglia maledettamente a non esserci. Stare uguale a zero. In vacanza si può fare esperienza della infinita differenza dei due modi: l’essere presenti a se stessi e alle persone amate, o la consuetudine come pre-morte, come stasi della vita. Nel primo modo, la quantità di vita non si misura nel fare chissà quali cose, ma in una dose di attenzione massima, di percezione viva, di apertura all’altro. Sto con te, con voi: siamo un evento l’uno per l’altro, stiamo succedendo tu per me e io per te. I figli, le persone e anche i volti più consueti possono in tal modo essere riconquistati. Si sta insieme, cioè si riaccade. In questi momenti, che sembrano inutili e invece sono così pieni di vita, verrebbe quasi da gridare di gioia e di struggimento, accorgendosi che l’altro c’è – tuo figlio, tua figlia, quell’amico o l’altro. Si può sentire sulla pelle e nel profondo del cuore e dell’intelletto il brivido-tsuanmi della presenza delle persone amate, del loro esserci. Sono momenti semplici, a volte spogli, accadono spesso in luoghi banali, senza show delle apparenze. C’è solo lo sfarzo della presenza dell’altro. Sono momenti che se pur si svolgono in un piccolo bar al mare o in una pensioncina senza troppe stelle hanno la potenza preziosa della adorazione. La vacanza, il tempo vacuo, vuoto, è uno spazio: in tale spazio, stare insieme può significare riaccorgersi della prodigiosa presenza dell’altro. Un miracolo senza fare niente, dicendo solo: vieni qui, siediti qui un po’.